‘Shambhala’, il primo film nepalese in concorso a Berlino

L'opera di Min Bahadur Bham è un intenso viaggio fisico e interiore tra le montagne dell'Himalaya

‘Shambhala’, il primo film nepalese in concorso a Berlino

BERLINO – Il primo film nepalese a entrare in concorso al Festival di Berlino si intitola Shambhala ed è stato realizzato anche grazie al progetto FeatureLab del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Il regista, Min Bahadur Bham, sta riuscendo a portare il racconto della cultura nepalese nel mondo, e già nel 2016 il suo esordio al lungometraggio aveva rappresentato il paese agli Oscar. Quest’ultimo film è un viaggio trascendentale alla ricerca di sé, diretto con grande maestria e intessuto di immagini che lasciano il segno.

La storia si svolge in un villaggio poliandrico del sistema montuoso dell’Asia meridionale, dove il matrimonio avviene tra una donna e più uomini. Pema (Thinley Lhamo) sta per sposarsi con Tashi (Tenzin Dalha) e i suoi due fratelli, il giovanissimo Dawa (Karma Wangyal) e il monaco Karma (Sonam Topden). La donna resta incinta e Tashi scompare in seguito a un lungo viaggio di lavoro. Discussa dal villaggio, che dubita della paternità del figlio in arrivo, Pema parte in cammino, decisa a ritrovare l’uomo svanito nel nulla. Inizia così un’avventura silente, alla ricerca di qualcuno, e in realtà dedicato alla riscoperta di sé. Un invito allo spettatore a ritrovare il peso delle cose che contano.

Ascoltare Min Mahadur Bham è un piacere, così come osservare la sua idea di cinema. “Un racconto personale che dovevo lasciare al mondo”, racconta il regista e sceneggiatore. Non sono i fatti che accadono su schermo a legarsi alla sua storia di vita, quanto il viaggio di scoperta interiore vissuto dalla sua protagonista. La filosofia di Bham discende dal buddhismo, di cui è un appassionato studioso (è laureato in antropologia), e si lega alle piccole cose della vita, idee di cui i montanari dell’Himalaya hanno saputo fare la propria esistenza, di generazione in generazione.

“Per chi vive nelle montagne – spiega il regista –  viaggiare è parte della vita. Cerchiamo sempre un percorso migliore per vivere una vita più bella. Ma a fine giornata, quando ci guardiamo dentro, sappiamo che il luogo da cui veniamo è quello che stavamo cercando. Questo è il conflitto nel film e il dilemma che porto in me”.

Shambhala significa “paradiso mitico”, un luogo di gioia, liberazione e amore. Per i più credenti è la terra in cui nascerà l’ultimo Buddha. Il titolo del film appare a schermo solo 50 minuti dopo l’inizio della storia, come a segnare un percorso che riparte, una nuova porta d’accesso. Il film, di due ore e venti, si spezza infatti dopo un inizio più gioioso, quasi da commedia leggera. Prende posto solo poi l’aspetto più ascetico e spirituale, anima profonda di un racconto che non trasmette singoli messaggi ma vuole arrivare nella sua totalità, come i molti campi lunghi di cui si compone.

Per quanto vicino ai temi della reincarnazione, Shambhala ci parla dell’illuminazione individuale, unica soluzione per il dolore di ciascuno. La filosofia buddhista è riproposta nei minimi dettagli, senza risuonare mai didascalica: si nasconde nei dettagli. Emerge dalla storia, dagli splendidi paesaggi attraversati, che tanto hanno sfidato la produzione, senza minarne mai il risultato. Il suo regista ne è certo: “Sapevamo che sarebbe stato difficile, ma in quei luoghi c’è un’energia che torna alle immagini, e per questo non è mai stato davvero un problema”.

Shambhala è fatto di tanti piccoli dettagli, importanti come i paesaggi sterminati dell’Himalaya, le cui montagne dividono lo schermo con un cielo terso. Immagini seducenti, dove trovano posto anche i sogni. La fotografia di Aziz Jan Baki abbraccia per intero l’avventura della protagonista grazie a un formato ampio, fatto di luci calde e intime e riflessi di vaste vallate rocciose.

Importante è la scelta della protagonista, disposta ad avventurarsi in un’odissea senza certezze, il cui unico premio è ciò che scopre nel percorso. “Ho sempre cercato il femminile che è in me – racconta Min Mahadur Bham -, e ho sempre cercato di direzionare questa energia che appartiene a tutti gli uomini, e che troppo spesso decidiamo di ignorare. Per me, il film è anche una metafora di questa mia ricerca”.

L’interpretazione del film, affidata allo spettatore, vive di estrema libertà soprattutto nel finale. “Si apre all’immaginazione”, spiega il regista. “Per me è un finale molto felice, perché il punto non sono le vicende che vediamo in superficie, ma il percorso di scoperta della protagonista. Trovare te stesso, dentro te stesso, è la cosa più bella, molto più che trovare qualcosa fuori da sé, che per me sarà sempre temporaneo. Noi siamo permanenti, e questo ci guida alla felicità”.

autore
23 Febbraio 2024

Berlino 2024

Berlino 2024

Perspectives, la Berlinale lancia il nuovo concorso per opere prime

Questo nuovo concorso a sé stante includerà fino a 14 opere prime di fiction provenienti da tutto il mondo, con una giuria composta da tre persone

Berlino 2024

Berlinale, social violati da hacker antisemiti

In seguito alle polemiche sulle dichiarazioni di alcuni premiati sul palco della Berlinale, sul canale Instagram della sezione Panorama sono stati pubblicati post e immagini antisemiti. Il festival ha denunciato la violazione alle autorità

Berlino 2024

‘Dahomey’, Mati Diop e l’arte che sconvolge il mondo: “Non sottovalutiamo il cinema”

Con questo documentario dedicato al rientro in Benin di 26 delle migliaia di opere depredate dall'imperialismo francese, la regista francese di origini senegalesi ha conquistato l'Orso d'oro della Berlinale 2024

Bruno Dumont
Berlino 2024

Premiato il cinema più radicale, tra venti di guerra e impegno

La giuria di Lupita Nyong'o ha vissuto discussioni animate, "ma nel rispetto delle opinioni di tutti e arrivando a una decisione unanime"


Ultimi aggiornamenti