I soldi per finanziare le imprese li controlla la mafia. Questo lo sappiamo. I veri manager mangiano solo sushi. Anche questo è noto. La vera sorpresa di Mi rifaccio vivo, l’ultimo film di Sergio Rubini in uscita il 9 maggio in 300 copie è che a sovraintendere quel che succede in paradiso sia niente di meno che Carlo Marx. Il teorico del socialismo scientifico è arrivato a occupare un posto prestigioso nelle alte sfere dell’aldilà ed è lui a decidere nonostante il protagonista inveisca contro i comunisti che a Biagio Bianchetti, imprenditore suicida interpretato dal comico Lillo, spetti una seconda possibilità sulla Terra per dimostrare di essere un uomo migliore, anche in grado di aiutare quello che in vita era il suo peggior nemico. È così, con una commedia alla Frank Capra, con venature fantastiche, che il regista pugliese, arrivato al suo undicesimo film dietro la macchina da presa, si confronta con il problema della crisi economica, delle banche che strozzano i piccoli industriali, uccidendo non solo l’economia ma anche gli individui. Conseguenza inevitabile di questa società ormai lacerata dal capitalismo è la competitività a tutti costi, che invece di migliorare le persone le spinge verso l’autodistruzione.
È per questo che anche l’avversario di Bianchetti, Ottone Di Valerio, impersonato da Neri Marcorè è un manager di successo ma ha continue crisi di panico che necessitano di un’analista 24 ore su 24. È per questo che la sua vita apparentemente perfetta, vista da vicino rivela tutte le magagne di un successo che è più frutto dell’inganno che del lavoro. In mezzo la figura di un uomo di successo “illuminato” – che ha il volto di Emilio Solfrizzi – Dennis Rufino, che scelto per ospitare l’anima di Bianchetti, riuscirà a migliorarsi ulteriormente (e forse ad ammorbidirsi) proprio grazie al confronto con un perdente. “Quello che volevo fare – spiega Rubini – era un film sulla pacificazione, sugli steccati da abbattere. Di questi tempi potrebbe sembrare in linea con i governissimi, ma quello che invece mi preme sottolineare è che il nemico per batterlo bisogna conoscerlo e alle volte, conoscendolo, si può pure imparare a nutrire una certa simpatia”.
Rubini, che già in L’anima gemella aveva affrontato un tema simile (anche qui si parlava di antagonismo, magia e reincarnazione) insiste poi sull’importanza di un cast pensato e voluto proprio in virtù della storia; a partire da Solfrizzi che dà vita a un personaggio che è soprattutto fisico: “Ho scelto Emilio perché volevo un comico di una volta, quelli che sanno muoversi, saltare e cadere. Dopo ho pensato agli altri attori”. Ed effettivamente la fisicità di Dennis Rufino ricorda quella degli esordi, quella degli sketch di Toti e Tata: “Solitamente al cinema si lavora per sottrazione – spiega l’attore barese – con Sergio invece ho dovuto fare il contrario e mi sono davvero divertito. Anche se, quando mi ha detto che avrei dovuto essere l’involucro di Lillo, mi sono spaventato…”.
Volutamente sopra le righe anche i personaggi di Neri Marcorè, che per tutto il film “non si sente più i capelli” ma che ammette “mi sono divertito a fare lo stronzo”; di Valentina Cervi – in conferenza stampa col pancione – perennemente sotto psicofarmaci, e di Margherita Buy, che scherza: “mi hanno affidato questo ruolo per farmi un dispetto. Non è stato facile perché ho dovuto creare un personaggio buffo, però sono contenta del risultato”. Di tutt’altra pasta invece la moglie di Bianchetti, Sandra. “Per questo ruolo – dice Rubini – volevo una donna un po’ in contrasto con le nevrotiche impersonate da Cervi e Buy, così ho scelto Vanessa Incontrada che ha reso perfettamente l’idea di una femminilità più compita, più leggera”. Il regista torna poi sul tema del film, sottolineando l’importanza, almeno in questo lavoro, del lieto fine: “Quando ero più giovane non amavo tanto gli happy-end. Ora invece credo che il cinema debba essere meno voyeuristico e prendersi le proprie responsabilità, indicando una strada, dando delle risposte”. Gli fa eco Domenico Procacci, che con Fandango ha prodotto il film insieme a Rai Cinema: “Con Mi rifaccio vivo abbiamo voluto cercare un percorso nuovo. In Italia per accontentare il pubblico si tende sempre a fare lo stesso film. Invece, per fare vivere il cinema, bisogna anche avere il coraggio di proporre delle alternative”.
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