In anteprima in apertura al Bif&st, che ha inaugurato, e poi in sala dal 7 ottobre, arriva il film di Sergio Castellitto, distribuito da 01 in 300 copie. Nel cast, oltre allo stesso Castellitto, Bérénice Bejo e Matilda De Angelis, insieme al cantante Clementino. La storia è tratta da un graphic novel, ‘Un Drago a forma di nuvola’, di Ivo Milazzo, a sua volta ispirata a una sceneggiatura nientemeno che di Ettore Scola, qui riadattata dalla penna di Margaret Mazzantini.
Il protagonista è Vincenzo, libraio che vive a Parigi – ricostruita in maniera sognante negli studi del mitico Teatro 5 di Cinecittà, quello prediletto da Fellini – che oltre all’amore per la lettura coltiva quello per la figlia Albertine, rimasta paraplegica in seguito a un incidente e per questo isolatasi dal mondo. L’arrivo di Yolanda, attrice frizzante ed esuberante, di cui si innamora, sconvolge la sua vita e quella di chi gli sta vicino. Ne abbiamo parlato con il regista.
Lei definisce il film “soave”…
“Si cerca sempre di sintetizzare un lavoro insintetizzabile. Tutto è cominciato tre anni fa, quando eravamo tutti persone diverse, io stesso avevo una ‘cazzimma’ che oggi non ho più, magari però ho qualcos’altro. E’ soave perché abbiamo deciso immediatamente di rinunciare alle tinte forti, il soggetto non lo consentiva. Sono stato allievo di Ettore, ho fatto due film con lui, e sono stato protagonista con Mariangela Melato di uno dei film che lui produsse, Piazza Navona. Un’amicizia intensa, che crea in me una sorta di imbarazzo, è lui che è venuto verso di me. Abbiamo fatto insieme due film fondamentali, La famiglia e Concorrenza sleale. Quando lessi questa storia dalla quale lui aveva tratto una graphic novel mi piacque l’idea di essere io a dover realizzare quella che era l’ultima idea di Ettore. Ma sapevo, come lo sapeva lui, che l’idea aveva qualcosa di non concluso. Margaret ha completamente riscritto la storia. Il ‘materiale emotivo’ è un ossimoro ma è il cinema a essere ossimoro, campo e controcampo”.
Il film è tratto da un fumetto, però è evidente l’influenza del teatro…
“L’idea della scrittura sta nella folgorazione che la scrittura mi ha regalato, la metafora del teatro. Non a caso il film si apre e si chiude con un sipario, stabilisce un patto inconsapevole col pubblico. Ma io specifico che quello che raccontiamo non è finto, è rappresentato. Una cosa più vera del vero. E poi il patto si dimentica, si viene presi dalla storia, ho cercato di evitare il ventre, i cazzotti del melodramma, ho appuntato le cose, in questo senso è una storia ‘soave’. Si vedono le carceri. La piazza di Parigi, la libreria, la soffitta. Sono scene tipiche da romanzo. E poi c’è un altro carcere: un acquario, una sedia a rotelle. Sono prigioni in cui i personaggi si trovano. E poi Vincenzo, felice prigioniero dei suoi libri. Convinto che ‘l’attualità uccide’. Mentre il cinema, la letteratura, quando sono nobili, ci rendono eterni. Vediamo ragazzini lanciati oltre il muro di Kabul per essere salvato e continuiamo a mangiare. Poi leggiamo un libro sulla morte di un gatto e piangiamo. Ciò che è rappresentato ci colpisce più della verità. I libri sono belli perché ogni parola è un’immagine inespressa. Non è vero che leggere un libro è un gesto di ascolto passivo. C’è una parte che viene scritta da chi legge. Così a teatro: chi ascolta fa un gesto ancora più attivo dell’imbecille che recita. Quando le carceri vengono buttate giù l’unico a rimanere comunque intrappolato è Vincenzo. Volontariamente, il sipario si riapre e lui balla da solo”.
Ci parli delle sue attrici, De Angelis e Bejo…
“Le attrici sono formidabili per diversi motivi. Matilda ha conservato la disciplina che aveva tre anni fa, questo film risale a prima dei suoi exploit. Sa essere docile nel progetto e metterci del suo, fidandosi solo dei suoi occhi perché non parla. Bérénice ha una grande sapienza, è tecnicamente esperta, ma sa far dimenticare la tecnica. In questo mi riconosco, non è mai completamente spontanea, cosa che per me è un valore. E poi generosa nel lavoro, eccezionale”.
Preferisce fare l’attore o il regista?
“Non sono adatto alla regia, ci vuole un fisico che non ho. Soprattutto a fare solo il regista. Ho la fortuna di avere in casa qualcuno che i film li fa bene, lasciamo fare a chi li sa fare. E poi quest’anno arrivo al traguardo dei 100 film, largo ai giovani. Non ho la smania di dover dimostrare niente. Mi propongono progetti come attore che mi piacciono. Non la considero una rinuncia, ormai a casa c’è una factory”.
Perché ha scelto di usare Clementino?
“Perché Troisi è morto. Ho sempre usato i cantanti, essendo dilettanti della recitazione portano qualcosa di disconnesso ma di sorprendente. Lui è originale, arruffato, simpatico, generoso. Nella graphic novel i personaggi somigliano a Depardieu e Troisi. Scola avrebbe fatto lo stesso, cambiando, modificando, le sue sceneggiature erano appunti su cui lavorare. A Sandra Milo invece non importava molto di stare al Teatro 5, pazzesco. Io ho avuto il camerino storico di Federico, cosa può esserci passato? C’è tanto di nuovo nel film ma anche il nocciolo germinale di Scola. E un po’ di Jacques Rivette. Io dal teatro provengo. Il teatro è mia nonna e il cinema un amante, ogni tanto vado a trovare nonna, e ogni volta che ritocco il teatro, che esiste da 4mila anni, mi rendo conto di quanto sia moderno. Il cinema ha 130 anni, è appena al primo atto. Ma da 4mila anni un imbecille sale sul palco e parla alla gente, è incredibile”.
Come si è rapportato al materiale originale di Scola?
“La sceneggiatura l’ho letta tre anni fa e dissi subito che avrei accettato il film se la storia si fosse sviluppata in una versione vicina a me. Il mio materiale emotivo è quello che connette corpo e anima. Il buco alla pancia di quando sei innamorato, il male al fegato di quando sei arrabbiato. La preoccupazione per mio figlio che non torna la notte. O tutto quello che non so dire io stesso. Siamo tutti materiale emotivo, ora abbiamo il problema del distanziamento sociale, ma il distanziamento era già iniziato, ci diciamo “ti amo” e “ti odio” in venti battute di WhatsApp. Alcuni titoli rimandano a una domanda, altri ti si impongono. Se uno si chiede cosa sia ‘il materiale emotivo’ magari si interessa al film”.
E naturalmente c’è il rapporto coi libri, con gli autori, con la letteratura…
“Checov era grande perché stava in bilico tra dramma e ridicolo, c’era questa tragedia sfiorata e mai accaduta. I suoi personaggi erano un po’ autentici e un po’ clown. E’ anche la mia formazione, ma sono cose che stanno a livello di letteratura popolare. Il mio scrittore preferito è Simenon, scriveva Maigret. Checov stava dietro le quinte e si preoccupava che il pubblico ridesse. Tutto il lato più incomprensibile ce lo siamo inventato un pochino noi. Il cinema dovrebbe essere sempre un gesto popolare. Ogni film ha il suo pubblico. Il film va bene non se fa una certa cifra, ma se si porta a casa il pubblico che apprezza quello, e non quell’altro. Io faccio film come uno spettatore. Faccio i film che mi sarebbe piaciuto andare a vedere, e io a vederlo ci andrei. Sono un operario specializzato, e spettatore. Nella versione originale si citavano molti autori, ma erano citazioni staccate da quello che facevano i personaggi. Noi nel film abbiamo messo libri che insegnassero ai personaggi cosa dovevano fare o cosa non avevano capito. ‘Il barone rampante’ è un invito a scendere dall’albero. Don Chisciotte è l’invito a non lasciarsi morire. Oscar Wilde e ‘Le notti bianche’, tutto è integrato nella trama”. Non volevamo solo citazioni ‘colte’, ma spiegare come i grandi autori ci accarezzino, ci insegnino e ci facciano anche soffrire”.
Cosa ne pensa del fatto che le sale siano ancora piene solo a metà?
“Tifo la Roma e sono felice di vedere la curva Sud tifosa e festosa. Mi piacerebbe che i teatri e i cinema fossero altrettanto pieni, ma evidentemente attorno al calcio ci sono interessi diversi da quelli che ci sono attorno a teatro e cinema, inoltre il mondo culturale s’è fatto sentire poco in questo senso. Siamo passati dalla paura della malattia a quella del vaccino, che è la spina nel fianco. Poi accadono cose paradossali. Sono stato in Rai, ho tirato fuori il Green Pass e mi hanno detto ‘non serve’. Io ho avuto il Covid, ho fatto il vaccino, almeno datemi soddisfazione. Nemmeno un tampone mi hanno fatto fare. Chiaro che la gente sia confusa. Il cinema, dopotutto, è anche più sicuro degli stadi. Bisogna capire il peso negoziale che si riesce a mettere su”.
Cosa ci ha lasciato questa pandemia?
“Se c’è una cosa buona dell’esperienza della pandemia, è che verranno tagliati i rami secchi. Sopravvivrà solo la qualità. Non ci si potrà più permettere di consegnare soldi a persone non in grado. Si sopravvive solo se riusciamo a fare cose buone e belle, nel rispetto di chi deve occupare la sedia”.
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