‘Sasquatch sunset’, non è un mondo per Bigfoot

80 minuti di contemplazione naturale assieme a quattro leggendari "Piedoni". L'imprevedibile film dei fratelli Zellner, presentato alla Berlinale special, nasconde tanta umanità e una genuina parabola ambientalista


BERLINO – Presentato in anteprima al Sundance Film Festival e subito eletto “Film più strambo dell’anno” dalla stampa, i fratelli DavidNathan Zellner portano Sasquatch Sunset di fronte al pubblico della sezione Berlinale special, confermando le prime sensazione giunte da oltreoceano. Tra umorismo e inaspettata tragedia, questo film di appena 80 minuti è un’avventura contemplativa dedicata a una famiglia di Bigfoot, ovvero i “sasquatch” nati dalle leggende metropolitane del Nord America. Attraverso uno stile mockumentary e un utilizzo realistico di trucchi prostetici e make-up, i fratelli Zellner nascondono sotto chili di pelo i corpi delle star Riley Keough e Jesse Eisenberg, privandoli della parola e costringendoli a versi e gesti sbracciati da una parte all’altra della foresta. Nonostante la sorpresa che coglie lo spettatore nei primi minuti, Sasquatch sunset sorprende con un’empatia che non ha bisogno di parole. Il piccolo gruppo cerca cibo, esplora il mondo e si prodiga per ritrovare altri membri di una specie di cui non ci è raccontato il passato. Un gioco, divertente, fantasioso, che si apre però a una profonda parabola ambientalista.

Diviso nelle quattro stagioni di uno stesso anno, Sasquatch sunset sembrerebbe il racconto di un’epoca lontana, con al centro creature magiche di regni scomparsi. Man mano che avanzano tra le foglie, scoprendo rischi e pericoli della natura, i Bigfoot trovano però tracce di un altro essere, a loro ignoto. Questo avrebbe la capacità di trasformare il terreno scosceso in un’unica distesa piana (il cemento), oltre che riuscire a segnare con grosse X gli alberi da abbattere, gli stessi su cui la famiglia di creature picchia incessantemente con dei bastoni nella vana speranza di una risposta da parte di altri esemplari. Siamo perciò ai giorni nostri, in epoca moderna, ma questo, purtroppo, non è un mondo per Bigfoot. Gli esseri immaginari parte del folklore statunitense, incontrano nel loro percorso animali della natura selvaggia, elemento fondamentale a ricollegare la fantasia alla realtà. Perché non c’è sasquatch alcuno per le foreste del Nord America, ma mentre le osserviamo andare a fuoco ricordiamo il destino dei tanti animali incontrati dal gruppo nel proprio percorso.

Sasquatch Sunset inizia come un documentario, facendoci conoscere i personaggi da una distanza di sicurezza, messa a dura prova solo da improvvisi zoom o più creativi splitscreen. Sono parte della contemplazione naturale, con il lungo pelo che sbuca dalle fronde della foresta e si mimetizza con gli immensi alberi del loro habitat. Presa confidenza coi soggetti, gli Zellner si avvicinano. Sasquatch sunset diventa una storia di famiglia, fatta di momenti d’attesa e sopravvivenza. Alla fine, i quattro diventano amici, se non umani almeno vicini per tanti aspetti a noi, tanto da strappare ampie risate nei momenti più leggeri e qualche preghiera, in loro supporto, quando le cose si mettono male. Vogliamo, insomma, il meglio per queste creature che per un attimo riusciamo persino a dimenticare essere frutto d’immaginazione.

La passione dei fratelli Zellner per questa leggenda, trattata in maniera farsesca ma metaforica, viene da lontano. Già 13 anni fa, i registi avevano presentato al Sundance un cortometraggio dal titolo Sasquatch birth journal 2, mockumentary di appena 4 minuti di cui quest’ultimo lungometraggio appare la piena realizzazione. A produrre un racconto tanto assurdo – più da raccontare che da vedere: c’è un’umanità magnetica in queste creature che cattura e si spiega da sé – è Ari Aster, regista Horror tra i più apprezzati e audaci della nuova generazione.

Sasquatch sunset ha un tono pacato, lento, da slice of life immaginario con cui riscopriamo la natura attraverso lo spirito curioso della famiglia di “piedoni” (negli anni in Italia li abbiamo tradotti alla lettera). Sono animali, ma al contempo scoprono la natura come giovani primati all’alba dell’evoluzione. Nessuna parola viene proferita eppure i caratteri sono chiari e ci permettono di legarci alla loro storia. Uno annusa tutto, e scopre così le more, i funghi allucinogeni e gli animali selvatici, insegnando al gruppo che di tracotanza, in natura, si muore. In silenzio, o meglio, per gesti e grida, dicono tutto. Un altro trascorre le notti a contare le stelle: si impegna, ci prova, ma perde il conto. Con il dito contro il firmamento tiene traccia dei puntini davanti a sé, poi si arrabbia e riparte. Vorrebbe arrivare alla fine, ma anche quattro uova trovate nel percorso lo obbligano a un calcolo interrotto, a lui forse impossibile per quanto agognato. Per quanto contemplativo, il film non offre un’Arcadia ideale. I nostri sono corpi viventi e da tali funzionano. Flatulenze, copulazioni a cielo aperto, gravidanze. La vita dei Bigfoot è fitta di attività, anche le più scabrose, mai celate dai fratelli Zellner, che sembrano al contrario fare un vanto della propria divertita sfacciataggine. Sono perciò animali in aperta natura, con qualche guizzo d’umanità che ci li avvicina nella maniera più inaspettata. La sepoltura che ad esempio dedicano ai membri del gruppo caduti strappa teneri sorrisi e ce li avvicina ancora una volta.

La scelta di trucchi prostetici – in altre grandi produzioni si sarebbe certamente preferito la via della computer grafica, oggi scelta prioritaria – permette di riconoscere le movenze degli attori sotto ai pesanti costumi, lasciandoci godere delle performance e della commedia che riescono così a restituire. Non è facile distinguere Eisenberg dalla Keough, ma è certo che sia qualcosa di vero a muovere questi costumi, un’autenticità che arriva diretta ed è il cuore del progetto assieme alla sua lenta ma efficace parabola.

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20 Febbraio 2024

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