“Mi piace lavorare con le immagini in modo emotivo, mettendo in discussione tutti i linguaggi, avendo un’estrema libertà di movimento, rifiutando la narrazione convenzionale. Ho sempre cercato di colpire al cuore gli spettatori. Spero che avvenga anche con il pubblico di Pesaro Film Festival che vedrà la mia personale”.
Roberto Nanni, bolognese, classe 1960, approdato a Roma da sette anni dopo un lungo girovagare per l’Europa, è un cineasta – “questo termine a differenza della parola regista include la conoscenza intima del mezzo espressivo usato” – che ha collaborato con il gruppo di musicisti statunitensi Tuxedomoon e in particolare con Steven Brown, cercando alla fine degli anni ’80 una sintesi tra il linguaggio musicale e quello visivo. Con L’amore vincitore. Conversazione con Derek Jarman ha vinto nel 1993 il primo premio e il premio del pubblico al Festival internazionale Cinema Giovani di Torino.
Nanni, quali sono i tuoi maestri?
Mi considero un cineasta che si è formato con il cinema americano sperimentale e d’avanguardia degli anni ’50 e ’60 di Stan Brackhage, e quello underground di Jonas Mekas e Kenneth Anger. Ma tra i miei maestri ci metto anche Carmelo Bene con il suo Nostra Signora dei Turchi, un film shock, lontano da certe consuetudini pesanti del nostro cinema, simbolo di un risveglio e di una ricerca all’inizio degli anni ’70. Ma anche Nanni Moretti che, con i suoi primi super 8, dimostrò che si poteva fare cinema intelligente con pochi soldi e mezzi, senza cadere nelle trappole delle megaproduzioni. Del resto, come diceva Jarman, lo scopo non è realizzare un buon film, ma fare qualcosa di più di un buon film e questo non dipende dai soldi.
Come nacque il tuo lavoro dedicato a Derek Jarman?
Mi aveva affascinato The Last of England con la sua commistione di generi, realizzato al di fuori di un’industria pesante, un’autentica ricerca espressiva che si mescola con una sorta di romanticismo, di amore per quello che si fa. Incontrai per la prima volta Jarman a Londra nell’83 e la conversazione più che il mestiere di regista riguardò la sua visione del mondo e le sue riflessioni sugli accadimenti. Fu un prologo all’incontro di dieci anni dopo a Roma raccontato nel mio film: Jarman e il suo rapporto con la caduta del Muro di Berlino, con il conflitto in Somalia e Bosnia, con Karol Woytjla e l’anatema contro i contraccettivi. Le inquadrature restituirono frammenti, dettagli del corpo di Jarman, un paesaggio umano inquieto.
Parlaci di Antonio Ruju. Vita di un anarchico sardo, il film prodotto dalla Sacher.
Angelo Barbagallo e Nanni Moretti conoscevano il mio lavoro e mi hanno proposto di realizzare per loro un film a partire da uno dei diari che costituiscono l’Archivio di Pieve Santo Stefano, diretto da Saverio Tutino. Tra 40 diari ho subito scelto quello di Antonio Ruju, che ha lavorato nella Guardia di Finanza prima e poi come agente di borsa. Ho girato in totale libertà: Angelo e Nanni sono stati rispettosi e mai invadenti. Anche qui ho affrontato la vita di una persona, il suo rapporto emotivo con un credo politico molto nobile, con l’impegno civile di tutta un’esistenza: dalla lotta al fascismo alla completa adesione all’ideale anarchico.
Girato in digitale a Torino in 4 giorni, il diario è stato lo strumento che mi ha permesso di porre ulteriori domande ad Antonio. Un 90enne, purtroppo scomparso 8 mesi dopo le riprese, molto espressivo e intelligente. A fare da contrappunto ad episodi atroci della vita di questo anarchico ci sono sempre humour e lievità.
Per questo film hai scelto un linguaggio più tradizionale.
Direi di sì, se penso a quello di Conversazione con Derek Jarman. Lì era una situazione differente, mi interessava vedere come vedeva Jarman, il quale si trovava sempre in un ambiente non suo – albergo, Palazzo delle Esposizioni, strada – un non luogo, mentre il suo corpo diventava il luogo. Invece il vecchio anarchico Antonio non poteva muoversi, così al montaggio è affidato il compito di dare dinamicità alla narrazione. Ma anche al suono in presa diretta, caldo, d’ambiente ed efficace, che viene amplificato, anche se in Jarman i difetti sonori e gli “errori” erano stati enfatizzati.
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