Con i suoi due primi film, Roberto De Paolis ha già solcato gli importanti Festival di Cannes e Venezia. Cuori Puri (2017) era un’intensa opera prima votata alla realtà, premessa di un interesse profondo per i margini e le tante comunità a cui non si pongono mai abbastanza domande. “Vite lontane dalla mia”, ci riferisce al Bellaria Film Fest 2023, dove Princess, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia79, è ora in concorso per “il miglior film indipendente dell’anno”. Anche questa è una storia lontana da lui, che l’ha invitato a scoprire l’efferato mondo della prostituzione a cui molte ragazze nigeriane, arrivate in Italia nella speranza di una salvezza, sono costrette per sopravvivenza. Il film mescola approccio documentaristico e finzione, trovando in una chiave fiabesca, dissonante rispetto al tema, una formula per rivelare queste vite attraverso il loro sguardo. Glory Kevin, l’attrice nigeriana protagonista, si prostituiva nei luoghi al centro del film. Conosce quel mondo, e ha aiutato a raccontarlo, portando se stessa e la propria esperienza in questa storia. “Sul set era una diva, non le sembrava vero” ci racconta De Paolis, riflettendo anche su alcune rimostranze che, all’estero, ha sollevato Princess. “Un Festival ha chiamato dicendo: ‘questo film è inaccettabile perché lei si diverte a fare la prostituta e i clienti sono persone con cui empatizzi e per noi non va bene'”. Su questo, De Paolis ha le idee chiare: “Per me è follia”.
Dopo il Festival di Venezia e l’uscita in sala, come prosegue la vita di Princess?
È molto faticoso, perché è un film che si colloca in uno scenario dove i film indipendenti soffrono molto ed è molto difficile fare dei film in cui uno crede e che allo stesso tempo abbiano della visibilità. Bisogna trovare un adattamento per cercare di mantenere un’identità. Per esempio ci sono dei film d’autore adesso che hanno un ritmo e una drammaturgia più intensa rispetto al passato, in cui si raccontano più cose. Secondo me è una necessità, più o meno inconsapevole, figlia di questo momento. Oggi ci si pone il problema poiché il pubblico è abituato a film dove ogni quarto d’ora succede qualcosa, se no cambia canale
Credi che la scelta di optare per un affiancamento del tuo racconto con una veste fiabesca arrivi, magari anche inconsapevolmente, da questa necessità che si pone oggi?
Certo. Poi parliamo di un film a stampo fortemente documentaristico, che aveva bisogno di un suo equilibrio, con il cliente con la ferrari che sembra un po’ un principe azzurro ma non lo è. Il bosco, gli animali, danno anche un ritmo di immagine, diciamo diverso, che un po’ lo emancipa dal documentario in senso stretto. La macchina a mano, la recitazione, la ricerca più documentaristica deve essere per me controbilanciata da un po’ di poesia, che poi ognuno interpreta come vuole. Certo, in questo caso tutti gli elementi della favola di questo film erano già presenti. Non è che io ho portato nulla: il cliente con la Ferrari esiste, fa esattamente quella cosa lì nel bosco, la polizia a cavallo, sono tutte cose che stando lì tre mesi ho visto e riutilizzato, non sono una forzatura.
Quale è stata la risposta dei soggetti che Princess mette al centro, le donne nigeriane costrette a prostituirsi per sopravvivere. Ci sono state proiezioni o incontri per confrontarsi sul film?
Si sono riconosciute molto in questo film, proprio perché è stato fatto con loro. Quello che mi dà un po’ fastidio è quando vengono ritratti degli immigrati usando il nostro metro di giudizio sulle cose, è inutile. Il problema che sta accadendo, per me, è che noi non riusciamo a vederli, a vederli come delle persone, che hanno anche dei problemi. Per esempio, Glory mi ha dato tantissimi problemi. Stavamo in una relazione paritaria e lei ha avuto la possibilità di venire fuori come persona. Gli immigrati che incontro sono sempre un po’ affranti, un po’ passivi, un po’ che non vogliono disturbare, cioè come se non fossero persone con problemi personali e fratture. Per convivere con noi li nascondono. Perché se uno ti viene a dire un problema suo, di base, viene mandato a quel paese. Ecco, anche questo era un po’ il senso del film. Era per raccontare che sono persone che portano delle storie difficili, che cercano di sopravvivere, ma hanno anche della rabbia e possono reagire. A me piace molto Glory in questo film. Perché tira fuori molto, a volte è scortese e spiazzante. Quindi loro si sono riviste, ma l’hanno preso con grande leggerezza. Noi ci abbiamo pensato per un mese: come glielo facciamo vedere? Tante questioni mentali, poi durante il film queste se la ridevano, stavano con i piccoli in braccio, uscivano per fumare. C’era una distanza, loro sono loro e quello è un film. Questo anche mi ha colpito molto. Anche le associazioni che ci hanno affiancato nella produzione erano molto miopi all’inizio, quando chiedevamo di parlare con ragazze uscite dalla strada. Perché c’era la paura di rievocare un trauma. Ma per loro era molto più importante fare un lavoro e venire pagati per la prima volta per una ragione diversa che non fosse la prostituzione. Ma quindi anche lì è tutta una proiezione di come tu faresti le cose, ma loro vivono le cose in maniera molto diversa da noi.
Anche il set l’hanno vissuto come un gioco?
Glory è diventata molto star. Paradossalmente severa. Aveva capito di avere questo potere incredibile. Immagina di passare dal vivere cinque anni per strada a essere al centro di un film che racconta la tua vita, e se non ti svegli la mattina non si gira e tutti ti aspettano. Vederla fare la diva è stato interessante. Lei si prostituiva di notte in una via trafficata di Roma, un luogo estremo, da incubo.
E quando si è spento il set lei come ha reagito?
Io ero molto preoccupato. Lei non vedeva l’ora che finisse. Poi ovviamente quando è finita era molto triste. Poi ha fatto questa bambina. Penso che questo le abbia subito dato un altro senso della vita. Un altro obiettivo. È rimasta incinta subito dopo. Un classico di quando tutto finisce. Io i miei due figli li ho avuti dopo i miei due film.
Anche in Cuori Puri esploravi dei margini, realtà su cui non si pone un’attenzione sufficientemente approfondita, dal mondo delle comunità religiose alle realtà rom, così come ora in Princess racconti la prostituzione. È questo il cinema che ti interessa esplorare?
A me piace provare a fare film su cose che non conosco. Dietro l’operazione delle parti, su dei mondi sconosciuti, uno può sicuramente trovare dei legami simbolici che lo riguardano, delle cose che possono avere a che fare con Dio, la vita, la disperazione, come nella scena del bosco di Princess. Tutti forse hanno provato a un certo punto della loro vita una forma di solitudine, disperazione, separazione, di certo estremizzata. Questo ovviamente è il mio pensiero, poi ci sono tante persone che amano fare film su loro stessi, come sappiamo.
Molti però oggi sostengono che per raccontare un contesto sia necessario farne parte. Quindi lo sguardo proteso verso mondi sconosciuti all’artista che racconta si fa più problematico. Cosa ne pensi? Ti è stata posta questa osservazione per Princess?
Per me è inconcepibile come cosa. Veramente mi fa orrore questo pensiero, perché è completamente sfasato rispetto alla realtà. Cioè tu puoi fare un film ambientato nel Trecento dopo Cristo, dove tu non sei stato, dove non ci sono persone con cui tu puoi parlare di quell’epoca, che hanno vissuto quell’epoca e sono morte 1800 anni anni fa. Però non puoi fare un film su una che abita e si prostituisce a trenta metri da te, dove invece puoi andare, puoi parlarci, puoi stare con lei, capire come si sente. Non capisco proprio. Sul tema migranti, ora in Italia loro non fanno film su loro stessi. Lo fanno in Francia, perché sono le terze e quarte generazioni. Qua nessuno li fa, quindi è anche un gesto farlo. Perché per esempio nel bosco che racconto in Princess le prostitute nigeriane non ci sono più. Con la pandemia è cambiato qualcosa e queste ragazze, da quello che mi dicono, non stanno più per strada, stanno negli appartamenti. Forse questa cosa della strada fra vent’anni finirà, non lo sappiamo. Questo film è anche la testimonianza che loro sono state lì, sulla strada a vivere così. Finché non saranno loro a fare questi film, noi ci dobbiamo impegnare a raccontare la loro vita. Quindi la critica di dire “Tu sei un maschio benestante e ti metti a raccontare la vita di una nigeriana che è venuta da una barca” proprio non l’accetto. La accetterei se io facessi il film senza fare una ricerca, allora lì proprio sarei uno stolto.
Pensavi all’eventualità di queste critiche in fase di studio e scrittura del film?
Io non giudico mai le situazioni. Cioè se io entro nel mondo della prostituzione, che è un mondo complesso che va avanti da non so quante centinaia di anni, non dico cosa è, pongo domande. Anche questi clienti che venivano, io li guardavo con grande misericordia, cercando di comprenderli. Anche le ragazze nigeriane non avevano grande rabbia nei loro confronti, anzi erano molto accoglienti con loro. Quando stanno lì si stabiliscono anche delle relazioni. È un mondo molto storto, molto strano. Quindi non è che puoi entrare e dire io penso sia così. Io non mi metto mai a giudicare. Questo secondo me è un buon punto di partenza, al di là del valore dei film, ovviamente. Però per esempio un Festival ci ha detto ‘ma tu come ti sei permesso di fare un film dove i clienti delle prostitute non sono cattivi?’. Per me è follia, però il mondo sta diventando anche questo. Un discorso complesso, comunque.
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