RISI & ANTONIONI


Antonioni Salvo errori, l’ultima volta che Antonioni e Dino Risi si videro a Venezia fu nel 1947. A quella Mostra, ufficialmente l’ottava, Antonioni era presente con il suo primo cortometraggio, Gente del Po, girato nel ’43, scomparso nel caos in cui piombò il Paese dopo l’8 settembre, e ritrovato nel dopoguerra col negativo rovinato e aggiustato alla bell’e meglio; Risi con il suo settimo, Cortili.
A differenza di Michelangelo, Dino, pur avendo già realizzato sette cortometraggi, aveva iniziato a trafficare dietro la cinepresa solo da un anno. Tuttavia i due erano nati da un’altra e comune radice. Entrambi avevano fatto la gavetta come assistenti alla regia, Michelangelo di Marcel Carnè in Les visiteurs du soir (1942, L’amore e il diavolo), Dino di Mario Soldati in Piccolo Mondo antico (1941) e poi di Alberto Lattuada in Giacomo l’idealista (1943).
Entrambi poi esercitavano il mestiere di critico cinematografico. Nel ’47 a Venezia Risi era presente con un cortometraggio e allo stesso tempo inviato di due quotidiani, “La Voce”, giornale socialcomunista di Napoli, e “Milano Sera”, quest’ultimo totalmente comunista, fondato da Amerigo Terenzi. Oggi pare singolare l’essere a Venezia nella doppia veste d’inviati e registi in concorso. Ma allora a tali quisquilie non si faceva caso: nessuno riteneva che un fatto simile andasse contro la deontologia professionale.
D’altra parte Risi era recidivo: nella doppia veste si era presentato a Venezia anche l’anno precedente. Non solo, ma il suo cortometraggio, Barboni, era stato segnalato fra i migliori documentari presentati, non dalla giuria, bensì da una commissione eletta sul posto dagli stessi giornalisti.
Risi Non sappiamo se Dino fu giudice del proprio cortometraggio, certo è che partecipò ad un referendum indetto da “Film quotidiano”, sui migliori lungometraggi visti in quella tornata. Dino ne indicò cinque, in ordine di preferenza: L’uomo del Sud di Jean Renoir, Ciapaiev dei fratelli Vasiliev, Il deputato del Baltico di Zarkhi & Chejfiz, l’Enrico V di Laurence Olivier e Les enfants du paradis di Marcel Carné. Dino Risi che preferisce film sovietici stalinisti doc a Paisà o a Il sole sorge ancora, pure loro quell’anno a Venezia? E’ difficile riconoscere in questo giudizio il futuro regista de Il sorpasso e di Una vita difficile.
Ma nel ’47 Risi era già diverso: fu l’unico, per esempio, ad apprezzare Spellbound (Io ti salverò) di Alfred Hitchcock che i suoi colleghi, specie italiani, spernacchiarono senza pietà. In compenso definì Lo straniero di Orson Welles “un cumulo di presunzione e improvvisazione”. Sui film italiani di quell’edizione, ricordiamo il suo entusiasmo solo per In nome della legge, recensito su “La Fiera letteraria” con un titolo azzeccatissimo: “I pellerossa di Pietro Germi”. Forse da questa recensione nacque la definizione rimasta poi incollata a Germi tutta la vita: “Il più americano dei registi italiani”.
Quanto ad Antonioni, egli più che altro fu un saggista. Ma sapeva fare anche del “colore” e ad alto livello. Come quando descrisse l’apertura di Venezia 40, prima Mostra di guerra, svoltasi rispettando l’obbligo dell’oscuramento: “A mezzanotte tutto era finito…Mutato scenario e tono, il film continuava all’esterno. Venezia appariva irreale, così buia: scivolavano lumi sui canali invisibili, e parevano cadute silenziose di stelle vicinissime. Rari lampioni creavano prospettive strane: potevano uscir benissimo dagli angoli delle vecchie calli, le vecchie maschere, e nessuno se ne sarebbe stupito. Piazza San Marco sembrava una morbidissima radura circondata da altissime siepi. In fondo il campanile, un enorme cipresso nero”.
Leggendo queste righe non vi sembra di assistere alla sequenza di un futuro film di Antonioni?

30 Agosto 2002

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