La notte tra il 2 e il 3 novembre 1954 vide nascere dal mare dell’inconscio uno dei fantasmi più temuti e longevi della cultura giapponese: tanto forte e dirompente da diventare, nel tempo, un’ombra ricorrente anche oltre oceano, negli Stati Uniti, capace di oscurare il mito di King Kong con cui, in seguito, avrebbe anche collaborato. Quella notte, il pubblico di Tokyo si spaventò a morte alla prima di Godzilla, diretto da Ishiro Honda, un ex assistente di Akira Kurosawa, che l’imperatore del cinema nipponico aveva consigliato alla casa di produzione Toho, non volendo impegnarsi in un progetto tanto lontano dalla sua sensibilità.
Il “mostro” era stato ideato dal poeta e scrittore di gialli Shigeru Kayama, assoldato dalla Toho per concepire una storia di mostri che si coniugasse alla realtà del Giappone ancora sotto shock per le esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki. Kayama e Honda lavorarono su un’idea che considerava il modello hollywoodiano di King Kong, ma anche una tradizione asiatica che vedeva il pericolo emergere dal mare. Ne nacque un modellino ispirato a un incrocio tra un iguanodonte, un tirannosauro e uno stegosauro, ricoperto da una pelle bitorzoluta che richiamava le cicatrici delle vittime delle radiazioni nucleari. Infatti, il primo film di una serie che ha fatto storia (28 seguiti nel cinema giapponese, due remake americani e un ritorno in patria nel 2016) ha una caratteristica che non si ritrova nelle versioni successive: un tono quasi documentaristico, in cui le immagini del Giappone post-bellico risaltano come primo elemento di interesse.
Ishiro Honda si rivolge a un pubblico che teme gli effetti della modernità sulla tradizione millenaria della nazione. Fin dalle prime immagini, in cui la paura dei vecchi pescatori si scontra con l’incredulità delle nuove generazioni, il film parla a uno spettatore desideroso di liberarsi dalla “paura della bomba”. Così, quando misteriosi incidenti simili a esplosioni fanno affondare un paio di pescherecci e le onde del mare si sollevano come in uno tsunami (parola che allora pareva esotica e oggi ci è familiare), le leggende degne di Omero prevalgono sull’empirismo scientifico. E quando il gigantesco mostro emerge finalmente dalle acque e si avvia a distruggere le città, colpendo per primo il porto di Tokyo, la tecnologia moderna sembra inerme di fronte al pericolo.
L’unico a combattere sembra essere il buon dottor Serizawa, nel cui laboratorio viene messa a punto l’arma segreta che sconfiggerà il lucertolone. È un bizzarro apparecchio che sottrae l’ossigeno, tanto letale da convincere il suo inventore che la scoperta potrebbe diventare altrettanto pericolosa del mostro che ha distrutto. Per questo, Serizawa preferirà scomparire in mare con il suo marchingegno, in un gesto degno di un antico samurai, piuttosto che lasciare la nuova invenzione nelle mani della modernità.
Perché resuscitare oggi il mito, a distanza di 70 anni dalla prima volta? Perché ormai ci siamo abituati a sentir parlare di “atomiche tattiche”, di distruzioni nucleari “controllabili”, perché i disastri delle centrali atomiche di Chernobyl e Fukushima sembrano dimenticati e parliamo con sempre più fiducia di una “nuova” generazione del nucleare. Di certo la scienza fa passi da gigante, e possiamo credere in una nuova era di energia pulita; ma, proprio come 70 anni fa, dal fondo del mare emerge un mito che minaccia le nostre vite: una verità possibile o una leggenda per spaventare i bambini (e poi rassicurarli)?
La seconda versione fu adottata sia da Hollywood, che nel 1956 “riadattò” il Godzilla originale purgandolo del suo alone di minaccia e inserendo scene con il divo di casa Raymond Burr, sia dalla Toho, capace di produrre i sequel togliendo il piede dall’acceleratore apocalittico e premendo il freno della paura con una fantasy sempre più rassicurante, grazie all’immancabile lieto fine. Rivisto oggi, il film di Ishiro Honda appare però più moderno e significativo di ogni rivisitazione, anche grazie alla lieve eleganza di un mostro ricreato in studio che pesava appena… 20 tonnellate. L’ultimo Godzilla ne pesa più di 100 e la sua capacità di impaurire è inversamente proporzionale alla sua perfezione tecnologica.
L’elemento seminale di questo genere di storie, già caro a pionieri della letteratura fantastica come Jules Verne, sta nella fascinazione per il mito contrapposto alla modernità. Quando si trattava di viaggiare in fondo ai mari o al centro della terra, era proprio la forza della scienza moderna a rassicurare; quando invece il mondo si trovò per la prima volta di fronte alla potenza dirompente dell’atomo, cominciò a radicarsi la paura del nuovo. Infatti, dopo la bomba di Oppenheimer, fioriscono le formiche giganti, i mostri celati in fondo alla terra e al mare, tutte le forze naturali che non conoscono etica o limiti quando ne viene risvegliata la forza ancestrale.
Godzilla è il parto di questa stagione della società contemporanea e sembrava pronto – alla metà degli anni ’50 – per prendere il posto del Golem ebraico o dei fantasmi asiatici. Appena però l’industria dell’immaginario comprese che quel seme poteva contrastare apertamente l’evoluzione della civiltà delle macchine, la minaccia venne annacquata in un racconto che sarebbe diventato un precursore dei videogiochi. Accadrà lo stesso, oltre la soglia del nuovo secolo, con l’Intelligenza Artificiale? O vedremo sorgere dai nostri computer nuovi mostri devastanti, capaci di darci l’ultimo avviso prima della catastrofe? Spesso il cinema sa anticipare la realtà e proprio nei sogni prendono forma i mostri cui il nostro inconscio non sa dare realtà. Godzilla è ancora là, a fare la guardia alla natura incontaminata, quella di cui non abbiamo voluto risvegliare la minacciosa potenza.
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