Un totale rovesciamento di prospettiva che ha l’effetto di detonatore in una situazione stagnante, come quella vissuta dalla protagonista del bel film egiziano Il capofamiglia. Una donna, madre di tre figli di cui uno lattante, è tenuta dal marito in una condizione miserabile e precaria, murata nel silenzio. Finché non assiste alla trasformazione del marito in… pollo. Un trucco di magia andato storto provoca la sparizione misteriosa dell’uomo e innesca una serie di vicende che gettano una luce inquietante sulla società egiziana contemporanea con il suo cieco patriarcato ma più in generale sull’assurdità della condizione umana o disumana.
Il capofamiglia (in originale Feathers, piume), in sala dal 16 marzo con Wanted, è l’opera prima di Omar El Zohairy, premiata alla Semaine di Cannes con il Nespresso Grand Prize. Già assistente di Yousri Nasrallah, il regista si era fatto notare con i suoi cortometraggi Breathe Out e The Aftermath of the Inauguration of the Public Toilet at Kilometre 375 che è stato il primo lavoro egiziano selezionato alla Cinéfondation di Cannes.
Cinema surreale e provocatorio. Poetico e politico. In cui la metafora si fa terribilmente concreta e contundente. In una famiglia che vive in condizioni di estrema povertà, morale e materiale, ma con sprazzi di consumismo inconsulto come l’acquisto di una fontana da appartamento, la stupidità è la norma nei rapporti tra il padre-padrone e la moglie-schiava, quasi catatonica, perennemente stanca, maltrattata e costretta a portare avanti il ménage familiare con pochi soldi che non bastano mai. Ma la tragedia sociale si tinge di farsa e black comedy.
Rimasta senza “capofamiglia”, ancora disposta a nutrire e curare il pennuto che trasforma il letto matrimoniale in pollaio, deve trovare il suo posto in una società fatta di soli uomini: in fabbrica non le vogliono dare un lavoro perché donna, in una villa dove presta servizio come cameriera viene accusata di furto per aver preso qualche caramella e due pezzi di carne dalla cucina per darli ai suoi bambini, il parente che sembra l’unico disposto ad aiutarla cerca poi di approfittare di lei. Questa donna – impersonata da un’attrice debuttante – è un personaggio senza nome e quasi senza identità che si muove in uno scenario dove tutto è lurido e consunto, dalle poche suppellettili della casa, che vengono poi anche sequestrate in cambio degli arretrati della pigione, alle banconote che passano di mano in mano, quasi disintegrate dall’usura, senza valore come le vite delle persone. E’ un mondo che sembra una immensa discarica e che vuole essere specchio di una condizione umana non realistica ma quasi metafisica (anche se in Egitto non l’hanno presa bene e si sono sentiti colpiti).
“Dovendo affrontare una situazione assurda – spiega il regista – madre e figli reagiscono senza riuscire a pensare lucidamente. Non riescono a trovare una via d’uscita. Proprio perché sono antieroi, a nessuno sembra importare di loro. Mi sento davvero vicino a questa situazione ed è per questo che ne sono rimasto completamente ossessionato. Sono stato suggestionato da diversi elementi e anche dall’eredità del cinema e della musica egiziani. Registi come Youssef Chahine, Mohamed Khan, Khairy Beshara, Yousry Nasrallah, Oussama Fawzy, proprio come Robert Bresson, Aki Kaurismaski e Jacques Tati, mi hanno ispirato per questo film, strutturato come un poema, per far percepire al pubblico l’essenza delle nostre vite”.
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