‘Promises’, per Favino storia di un amore mai nato

‘Promises’, per Favino storia di un amore mai nato


Una coppia: lei, lui. Un corridoio notturno, un’atmosfera scura ma avvolgente, una camminata a testa bassa: umidi gli sguardi, due passi di distanza, e la sensazione che quella minima prossimità fisica sia intrisa di sentimento e erotismo battenti: “non è colpa di nessuno”, le parole pronunciate dall’affascinate e malinconica bionda. Questa la prima sequenza – e lo snodo, poi – di Promises, film dal bestseller letterario della francese Amanda Sthers, anche regista dell’opera in Selezione Ufficiale alla Festa di Roma. “Penso tutti vivano il tempo in modo diverso, un minuto non è sempre uguale. Tutti guardano a come siamo esternamente ma internamente siamo uguali, lo capisci crescendo: spesso le persone si aspettano che tu ti comporti in un determinato modo, essendo prigioniero del tuo aspetto esteriore. Il modo letterario che ho usato (per il protagonista) è l’immaginazione di avere due mondi: penso tutti viviamo in due realtà, con i ricordi che ci fanno immaginare come sarebbe potuta essere la nostra vita. Difficilmente viviamo nel presente. (Il film) è un distillato di nostalgia, rimpianti e promesse mai mantenute. Crescere significa anche iniziare a guardare più al passato che al presente, rivalutando le occasioni perdute. È un film intimo, una storia che mi appartiene. È classica, garbata, riservata, ma quando si schiude mostra le ferite, le risate e le lacrime e anche le amicizie fraterne, le passioni, le paure, i traumi e l’ironia della vita”, spiega la Sthers.

Lui è Pierfrancesco Favino (Alexander, Sandro), lei Kelly Reilly (Laura): un commerciante di libri, una gallerista d’arte. 

Per lui, 3 età – l’infanzia/adolescenza, l’età adulta, quella matura -, 3 amici – da sempre e per sempre -, 3 donne – Bianca, la moglie; Laura, appunto; Gilda, la mamma del suo secondo figlio -, 3 opere letterarie: Se una notte d’inverno un viaggiatore, Il barone rampanteLa recherche proustiana, la prima a comparire nella storia, quella da cui conosciamo la vicenda famigliare di Alexander, che vive a Londra, papà italiano, come il nonno Giuseppe, interpretato da Jean Reno, colui da cui eredita un destino di vita connesso alle pagine dei libri, colui dal quale trascorre le estati sul litorale romano, colui che sa pragmaticamente affrontare la sua idea adolescenziale di farsi prete. “Penso di fare un mestiere che ci chiede l’accettazione: non ho mai pensato che l’essere in contatto con le proprie emozioni fosse una debolezza. Credo che in questo particolare momento siamo un po’ tutti in contatto con la nostra fragilità e paure: io faccio la scelta di accettare la fragilità, non mi stupisce però che – intorno a noi – ci siano grandi movimenti, che reputo emotivi. Credo che il cinema e le arti siano i luoghi dell’attenzione alla nostra salute personale. Il film ha a che fare con questo, e io mi sono sempre chiesto che bambino fosse stato Buscetta o Craxi: continua a interessarmi anzitutto l’essere umano”, dice Favino. 

La verità, la connessione tra l’essere bambino e il destino futuro, il concetto di “spirale” esistenziale: queste le riflessioni che Alexander scambia – parlando di Letteratura – con un uomo che gli chiede di acquistare alcuni preziosi volumi della collezione privata del nonno, conversazione delle prime sequenze, necessaria per l’essenza dei concetti che da lì prendono corpo e si snodano nella storia, quella personale dell’uomo, che sale al suo culmine quando – susseguite una serie di vicende – dice (ai fraterni amici): “ricordatevi di coltivare l’amore che provate l’uno per l’altra”, restituendo in questa frase il dolore, il rimpianto, la solitudine, di non aver reso concreto il suo sentimento per Laura, conosciuta una sera ad una festa e subito complice d’una scintilla d’intesa inconfondibile, mai “pronunciata”, reciprocamente, mai consumata, per il susseguirsi di circostanze che sì spesso hanno spinto nella direzione del far prendere forma a quella potente intesa di sentimento, eppur mai raccolte, mai coltivate… come appunto dice Sandro. Un amore mantenuto in un costante stato di imminenza del suo parto, così destinato a non vivere, per questo a non morire. “Non penso esista un metodo per fare l’attore, perché siamo persone, ciascuna differente. È sempre la sceneggiatura a darti il suggerimento. In questo caso, alcune cose si sono messe dentro di me perché appartenevano a me. Un attore per diventare attore ha bisogno di tempo: il viso non si forma prima di un certo tempo, così l’identità. I grandi attori, che invecchiano bene, sono quelli in cui tu non vedi nessuno sforzo, ma per questo ci vogliono grandi ruoli e grandi registi: un personaggio è una parte di una vicenda. Alexander e questo film, perciò, saranno sempre anche miei: io farei di tutto per salvare Sandro, così come lo farei per Il Libanese. Se l’attore crea una distanza col personaggio, perché dovrebbe essere visto? La spontaneità non m’interessa, mi interessa la creazione artistica, la libertà espressiva. Recitare è comunque un’operazione plastica, e io sono affascinato dalla creazione fantastica: l’artista deve avere la libertà di immaginarsi e emozionarsi. L’essenzialità non virtuosistica del gesto è quello a cui vorrei arrivare (nella carriera)”, continua l’attore. 

Il film uscirà distribuito da Vision Distribution.  

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17 Ottobre 2021

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