BARI – E’ la Marcia trionfale, che Marco Bellocchio ha diretto dopo Il gabbiano, ad aprire la via dell’incontro tra il regista piacentino e Michele Placido, suo interprete nel ruolo del soldato Paolo Passeri, giunto a Bari per aggiungersi al coro di artisti e professionisti che in questa settimana di Bif&st omaggiano il protagonista della retrospettiva “La storia, la memoria. Tributo a Marco Bellocchio”.
È proprio lui, Bellocchio, a cominciare raccontando come Marcia trionfale “per me è stato un film sentito, in cui lo stile veniva da sé e si imponeva nella storia che volevamo raccontare: aspetti tragici e grotteschi della vita militare”.
E “Michele è stato un grandissimo interprete, perché ha fatto davvero… il militare (nella vita, ndr), io no”, così il Maestro correda il dibattito filmico con il vissuto personale, spiegando che “allora era obbligatorio ma io ero riuscito a rinviare la leva perché facevo l’università, e ritardando… ritardando… poi ho fatto I pugni in tasca, ma a quel punto avrei dovuto comunque fare il militare e avevo – in fondo – un atteggiamento sbagliato, perché anche mio fratello Piergiorgio mi disse mi avrebbe potuto far bene farlo: mi presentai alla Scuola Sottufficiali di Caserta ma… poi cominciai a inventarmi la trafila dei malesseri – cosa che è un po’ anche del personaggio di Placido -, riuscendo ad avere addirittura un trasferimento al Celio, per cui il mio militare durò una quarantina di giorni e, di convalescenza in convalescenza, arrivai al congedo. Non è qualcosa di cui sono orgoglioso, avrei forse dovuto fare l’obiezione di coscienza”.
Placido invece il militare l’ha fatto “volontario, un anno e mezzo. Soprattutto noi del Sud, ma anche quelli del Friuli, cioè quelli di dove c’era disoccupazione, lo si faceva perché guadagnavi qualche soldino da mandare a casa. Quando poi ho vinto l’ingresso all’Accademia d’Arte Drammatica c’è stato un passaggio automatico, da poliziotto a attore”.
Ma com’è arrivato Placido al film di Bellocchio? È proprio il regista del film a riferire in sintesi che “il produttore Clementelli era autorevole e spinse molto perché il giovane potesse essere Michele Placido, senza un provino; con il capitano interpretato da Franco Nero”.
Placido che riconosce avesse “più cultura teatrale”, però “ero rimasto colpito da I pugni in tasca, soprattutto per la sua giovane età, aveva 25 anni; come attore di teatro, nel film riconobbi una certa recitazione – tra cui quella di Lou Castel, che mi ricordava Brando come tipologia attoriale – e vedendo quel film cominciai a pensare al cinema. Rimasi colpito dalla sovversione, pur essendo io ancora molto religioso. C’era anche qualcosa che non era violenza, ma una rabbia che si agita nella crudeltà, propria di opere come Riccardo III. Quel film mi aveva conquistato. Quando sono stato chiamato da Bellocchio mi sembrò impossibile, non mi sentivo all’altezza. Marco mi ha dato una coscienza, perché il cinema deve prendere un impegno con lo spettatore. E mi ha insegnato anche a stare un po’ dietro la macchina da presa: quando faccio un film penso spesso a lui: mi chiedo, ‘come avrebbe girato Marco?’, non come metterebbe la camera, ma quale sarebbe l’intenzione”.
Per Bellocchio, di Placido, per Marcia trionfale “contava anche che avesse esperienza militare, ma altrettanto sentivo un abbraccio famigliare: c’era un’educazione vicina, come anche la religione cattolica, con cui mi riuscivo a trovare”.
Non ha dubbi, Placido: “Marco aveva un rigore straordinario nel lavoro: è un soggetto capace di far diventare il set un’anima sola e questo è un talento, non di tutti i registi”.
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