PIETRO SCALIA


“Il montaggio che ho realizzato per Black Hawk Down ha un ritmo che una volta iniziato non si ferma, non dà allo spettatore il lusso di riflettere, anzi è un bombardamento d’immagini e suoni. Non ci sono tanti dialoghi e i personaggi si conoscono tramite l’azione. Volevo trasmettere l’esperienza di guerra allo spettatore nel modo più realistico; volevo che il pubblico, soprattutto americano, fosse avvertito di certi fatti, non con una lezione filosofica o politica, ma vivendo l’esperienza emotiva della guerra. Volevo che capisse che la guerra non è quella che si vede alla CNN”.
Così da Los Angeles, dove vive da tempo, il siciliano 42enne Pietro Scalia parla del film di Ridley Scott per il quale concorre all’Oscar per il montaggio. Forte di altre 3 nomination, una trasformata in statuetta nel 1991 per JFK di Oliver Stone.
Studi all’Università di California a Los Angeles, master in Fine Arts, Scalia inizia il suo apprendistato con Andrei Konchalovsky, passando poi a lavorare con Oliver Stone, Bernardo Bertolucci, Gus Van Sant e, appunto, Ridley Scott.

Registi diversi e dunque differenti stili di lavoro?
Con Ridley Scott ho lavorato intensamente, 3 film in 2 anni e mezzo, film di grande budget e complicati. Tempi ristretti, per cui la lavorazione de Il gladiatore, Hannibal e Black Hawk Down si è svolta senza pause, il montaggio di un film appena girato s’intrecciava con le riprese del successivo. Ridley gira tantissimo, per disporre di una grande quantità di girato. Subito dopo c’è una fase di circa due settimane in cui lavoriamo insieme scegliendo il materiale da montare. Poi mi affida la responsabilità di effetti speciali, luci, mixaggio, doppiaggio, titoli, trailers, insomma tutte le fasi che portano al negativo finale.

E con Stone, con il quale ha lavorato più di cinque anni, com’è andata?
Vidi Salvador e mi piacque il modo in cui era stato girato. Decisi così di lavorare con questo tipo di cinema che racconta situazioni vere, storiche come fosse un documentario autentico. Ho cominciato come assistente al montaggio in Wall Street, scalando poi i diversi gradini con Talk Radio, Nato il quattro luglio, The Doors. E’ stata una collaborazione basata sulla mia sincerità e sulla grande disponibilità di tempo. Ho sempre detto a Oliver cosa funzionava e cosa non funzionava nei suoi film mentre li girava. Ricordo che Stone aveva affidato il prologo di JFK a un altro montatore, ma dopo tre mesi di lavoro non era soddisfatto, così mi chiese di provare a rimontare il materiale. La scelta fu quella di togliere le troppe voci narrative e di concentrare quelle immagini in soli 7 minuti e mezzo, così da collocare lo spettatore da subito in quel periodo storico.

E con Bertolucci?
Con Bernardo il modo di lavorare è opposto, a parte una grande libertà. Ci sono leggerezza e gioia, non lo stress, quello che ho chiamato Sturm und Drang. All’inizio ero insicuro, perché venivo dal cinema realistico, violento, storico di Oliver, mentre Bernardo è regista di film poetici e lirici. Ricordo che a Katmandhu chiesi a Bernardo, dopo la proiezione dei giornalieri del Piccolo Buddha, che cosa volesse dal mio lavoro. “Devi cercare il tuo disegno, devi scoprirlo” mi rispose. Capii che una volta rintracciato il disegno di Bertolucci, avrei dovuto reinterpretarlo, creando qualcosa di nuovo.

Ha avuto dei maestri italiani o stranieri?
No, c’è solo la mia grande passione per il cinema: il neorealismo, Kubrick, Herzog, i musical di Minnelli, Ford, Truffaut. Adoro il cinema, mi trasporta in altri mondi.

Quand’è che il montaggio funziona?
Un buon montaggio non deve essere evidente, ma diventare trasparente, mutare l’artificiosità del cinema in autenticità, così da far partecipare lo spettatore al racconto. Al montatore il compito di scegliere i toni e i ritmi giusti della storia. Per calare lo spettatore nel conflitto somalo di Black Hawk Down ho utilizzato, come in JFK, la tecnica documentaristica, riscrivendo visivamente e montando l’evento storico grazie al materiale girato con numerose macchine da presa, fisse e a mano, e alla computergraphic. A prima vista potrebbe sembrare un film hollywoodiano, ma è cinema diverso, più avanzato.

Passa molte ore in sala di montaggio?
Mi perdo, non ho più la percezione del tempo. Entro dentro la storia e provo gioia e passione nel momento della creazione, quando le immagini e i suoni, quasi per magia, diventano tutt’uno.

Che sensazione si prova a vincere un Oscar?
E’ bellissimo. Quando nel 1991 ottenni l’agognata statuetta fu una grande festa, un circo, e un assalto da parte della stampa.

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