“La suggestione iniziale è felliniana, perché la ragazza sulla spiaggia de La dolce vita dicono le cronache ‘fosse’ Wilma Montesi, per questo non riusciva a parlare con Mastroianni. Per Fellini era la fine dell’innocenza. La gente diventò ossessionata dal gossip intorno ai possibili carnefici, dimenticandosi della vittima, modalità oggi assunta come stato assoluto; così ho immaginato un dialogo con una diva Anni ’50 – che per essere libera doveva compiacere l’aspettativa dello sguardo del maschio -, che potesse parlare con una ragazza di oggi, perché, dalla festa in poi, considero tale Mimosa (Rebecca Antonaci), che in fondo viene costretta a essere se stessa. Il potere immaginifico del cinema è un modo intelligente per leggere il presente e cercare di non rimanere cinici come il tempo richiede”, così Saverio Costanzo presenta Finalmente l’alba, che ha scritto e diretto, accompagnandolo dapprima in Concorso alla Mostra di Venezia 2023, e adesso in uscita al cinema, in 300 copie, dal 14 febbraio.
Nel film di Costanzo c’è il Cinema, uno spaccato della sua Storia, che cronologicamente corre parallelo a quello dell’Italia del dopoguerra, e c’è la cronaca: questi sono tre piani basilari del racconto, che indubbiamente gioca con l’epoca, per cui “l’operazione è stata di creare dei veri falsi storici, come il combattimento a piazza di Spagna tra tedeschi e americani, mai accaduto, così come non esiste un film che si chiami Sacrificio. Finalmente l’alba non è un film di citazioni, che non ci sono, ma è un film circolare: per esempio, nei Peplum non c’era la musica elettronica, ma quella loro musica tribale è l’inizio dei battiti elettronici; ci siamo divertiti a giocare di suggestioni da quel tipo di cinema”, continua Costanzo, per cui “l’idea era trovare volti autentici. Un cast corale è come tutti i colori che compongono un quadro: serve tempo per comporre un’eterogeneità dei volti, per restituire l’epoca. L’idea di cui sono fiero è essere riusciti a unire attori meno conosciuti, anche di una certa età, con attori più navigati o stranieri, accorciando così le distanze, come il nostro grande cinema faceva, proprio per dare eterogeneità. Il casting mi appassiona perché dà la prima forma al cinema”.
Un Cinema che per Finalmente l’alba ha preso forma proprio dentro la casa madre del Cinema stesso, Cinecittà, che non è solamente l’ambientazione della narrazione, ma anche il set vero e proprio in cui sono state girate le scene del film, che per il regista: “non è nostalgico, c’è nostalgia di uno scope grande, però non è nostalgico: il passato ci provoca nostalgia ma io, lavorando a Cinecittà, ho trovato non fosse cambiato niente dal passato del grande cinema: una volta tolti i segni del contemporaneo, c’erano le stesse facce, le stesse voci, e poi c’erano tutti i costruttori di Cinecittà che, nonostante siano cambiati si sono passati il lavoro, come fanno i veri artigiani, e l’auspicio è che possano continuare a lavorare non solo per gli stranieri, ma anche per noi, ecco perché bisogna vedere in grande; e così anche le comparse, dedite ore e ore sotto il sole, sono la dimostrazione che Cinecittà siamo tutti noi”.
Un’affermazione che sente unanimi le voci delle due star del film, Lily James (nel ruolo della diva Josephine Esperanto) e Joe Keery (anche lui stella del Peplum messo in scena, nella parte di Sean Lockwood). Per l’attrice britannica, che dice vorrebbe vivere a Roma, “Cinecittà è già di per sé meravigliosa e ti ricorda i fasti dell’epoca. Josephine mi ha dato la possibilità di guardare film come quelli con Monica Vitti e studiare dive come Joan Crawford, perché ho percepito fosse un personaggio moderno: il suo comportarsi in modo da essere amata, da ricevere consenso dall’esterno, nascondendo se stessa, indossando una maschera necessaria per ottenere il potere, è in contrasto con la percezione intima di essere perduta: è l’incontro con Mimosa che la confronta con la purezza, ecco perché si sente attratta”.
Per Keery: “l’esperienza di girare a Cinecittà è stata incredibile! Lockwood è un uomo e un attore molto arrabbiato, che riesce a farsi delle domande su cosa significhi essere attore, una professione che può far perdere di vista l’obiettivo finale e ciò che intorno a te può essere di arricchimento. Un atteggiamento ombelicale”.
La grandiosità di un’epoca d’oro del nostro Cinema, e di quello internazionale che cercava l’Italia, Roma, e proprio Cinecittà, per prendere vita, e che nel film di Costanzo si afferma anche in un profilo come quello interpretato da Alba Rohrwacher per cui “la cosa che mi sembrava più interessante nella scrittura del personaggio di Alida Valli era il renderle omaggio in un modo molto profondo: lei è parte di questo circo controverso e ambiguo che minaccia Mimosa, ma forse è l’unica capace di intercettare la sua purezza e l’unica che ha il coraggio di metterla in guardia. È stato un omaggio fatto con il senso dell’azione”.
Per l’attrice protagonista, Rebecca Antonaci, debuttate che molto convince, pura quanto intensa, “la cosa più difficile è stata togliere il giudizio dagli occhi di Mimosa, nei confronti dei genitori e della società”.
Nel film di Costanzo c’è anche poesia, certamente propria dell’opera, ma anche in senso più strettamente letterario, ed è lo stesso autore a spiegare l’innesto: “l’inizio della vicenda è a Piazza di Spagna, volevo fosse vicino all’albergo delle star per poter poi tornare alla fine: la poesia di Josephine a Mimosa – che si sente letta in voce fuori campo – ho provato prima a scriverla io, producendo orrore e una serie di “rugiade” e “albe” all’infinito, finché ho letto Passeggiando per Piazza di Spagna di Cesare Pavese, storia di una ragazza che scendendo le scale prende consapevolezza di sé. Io, senza saperlo, la stavo mettendo in scena. Pavese, poi, è proprio il poeta di quegli anni, la poesia è del 1950”.
Costanzo, dopo l’anteprima di Venezia, s’appresta a portare in sala, per il pubblico, un film lievemente ridotto, tagliato in alcune sue parti rispetto alla visione della Mostra. “E’ stata una proiezione veneziana in cui io stesso, da spettatore, ho proprio sentito dei tagli, che probabilmente già avevo in testa: alleggerire ho pensato potesse aiutare, facendo trovare al film la sua forma reale. Sono felice il film sia in movimento fino alla fine, perché poi lo completano del tutto gli spettatori. L’esperienza veneziana da spettatore è stata istruttiva”.
Da Venezia, Finalmente l’alba si porta dietro anche la scia di qualche borbottio, qualche polemica, rispetto al costo del film, che sarebbe stato troppo oneroso, si dice. Questione su cui risponde Mario Gianani (Wildside) dicendo che: “girano leggende, spesso per cose molto specifiche da raccontare. Il film è stato realizzato rispettando tutti i parametri per fare cinema in questo Paese, perché altrimenti sembrerebbe dire che le cose ambiziose vadano fatte, sì, ma altrove, e sarebbe un peccato. Io sono per continuare a lavorare qui, anche se forse fare questo film altrove sarebbe potuto costare un po’ meno, ma perdere le maestranze, per esempio, sarebbe una perdita gravissima”. Parole a cui fa seguito Paolo De Brocco (01 Distribution), per cui: “se vuoi fare un film con questa dimensione costa di più. Se vogliamo fare film ambiziosi costano, ma non più del loro valore produttivo: questo è un film che durerà vent’anni, che tra vent’anni verrà apprezzato per la sua bellezza e qualità, e anche questo è un valore”.
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