BERLINO – 1981, Colombia. Alla “Villa Napoli” di Pablo Escobar arrivano tre grandi ippopotami. I due giovani che li consegnano sino al cancello dell’imperatore della cocaina hanno un solo ordine: “Fate attenzione, sono bestie feroci”. È la prima volta che un intero branco selvatico viene trasportato fuori dalle terre calde dell’Africa sub-sahariana, ritrovandosi così al cospetto di Escobar assieme a leoni, elefanti e altri animali selvatici.
Quando dieci anni dopo Escobar si consegna alle autorità colombiane, per poi morire, numerose specie animali vengono liberate, lasciate fuggire dallo zoo privato del boss criminale. Solo uno, l’ippopotamo, riesce ad adattarsi al nuovo ambiente, trovando casa nei fiumi sudamericani. Pepe di Nelson Carlos De Los Santos Arias, in concorso alla Berlinale 2024, è la storia di questi animali, raccontata dalla prospettiva di un ippopotamo, a cui dona voce grave e riflessiva l’attore Jhon Narváez.
Guidati dalle sue parole, attraversiamo la ferita più profonda della storia colombiana, tra postcolonialismo e guerra civile. Le immagini si dispongono invece in un disordine apparente, affidate a un cinema sperimentale che gioca con continui stimoli visivi, tra aspect ratio in cambiamento, alternanza di bianchi e neri e colori accesi, e storie estemporanee intrecciate al destino di “Pepe”, il primo maschio del branco di ippopotami a lasciare il branco.
“Potrei andarmene volando – riflette l’ippopotamo – ma voglio solo starmene qui, fermo nell’acqua”. La voce di Pepe risuona come uno strumento antico, perso nelle profondità del tempo. L’ippopotamo, dilagatosi nei fiumi sudamericani, diventa simbolo di un paese, e del suo veloce cambiamento. Alcuni pescatori, da generazioni esperti dei corsi d’acqua di quelle terre, iniziano a preoccuparsi: “C’è un mostro nel fiume”. Intanto, Pepe riflette, e ogni tanto ride.
Arias l’ha definito “un filosofo della decolonizzazione, che scrive la sua poesia sul processo”. Il film infatti usa l’escamotage dell’animale per proporre una visione antropologica ed etnografica, con la quale indaga il territorio e la gente attraverso suoni e immagini sempre più intermittenti. A volte, lo schermo si fa bianco. Sembra eliminare ogni presenza, finché Pepe non ritorna in superficie e inizia a vocalizzare suoni a mo’ di canto. “Diretta verso l’ignoto su una macchina galleggiante” si ripete Pepe mentre il rumore battente delle eliche di elicottero lo accompagnano oltreoceano, come un requiem all’habitat in cui ha sempre vissuto. Un richiamo alla storia africana a cui Arias trova spazio nonostante l’affollamento di segni che si accumulano sulle immagini, tra parole, suoni e idee di regia. È un cinema di certo vivace, che chiede allo spettatore di completare le informazioni, usando l’animale come un filo che le attraversa.
A volte, può sembrare un documentario. I paesaggi ampi, ripresi in vedute di droni lasciati correre per gli sterminati paesaggi africani, sono una parte della complessità a cui il regista domenicano affida Pepe. Perché Nelson Carlos De Los Santos Arias si libera presto dei generi e trova anche nella finzione ulteriore supporto alla propria ricerca, con alcuni personaggi che rubano persino la scena all’ippopotamo chiacchierone a completare un’indagine filmica decisamente variegata.
A 30 anni dalla morte di Escobar, il governo colombiano ha annunciato un piano per la sterilizzazione dei molti ippopotami nel frattempo riprodottisi a dismisura. “La questione degli ippopotami in Colombia è un’altra questione della campagna politica” ha dichiarato il regista, aggiungendo: “Non volevo immischiarmi, non sono colombiano, quello che mi interessava era il simbolismo, ciò che emana da quella storia che mi fa ricordare l’emigrazione storica di Africa e America”
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