MILANO – Paolo Strippoli, regista di Piove, è nella rosa dei sei finalisti del Premio Caligari, all’interno della XXXII edizione del Noir in Festival. “CinecittàNews”, media partner della manifestazione, conferirà una Menzione Speciale ad una delle sei opere candidate, incontrando giorno per giorno – fino al 7 dicembre, serata della premiazione – due autori nominati per il premio.
Paolo, una riflessione sul genere nel cinema, che ha fatto grandi alcune stagioni e che di recente sta tornando a occupare la parte più interessante della produzione italiana. Da autore, cosa permette in più scegliere di abbracciare un genere? Che valore aggiunto dà a una storia? Che dialogo stabilisce con il pubblico?
La definizione ‘film di genere’ fortunatamente si sta aprendo tanto. Quando parliamo di film di genere parliamo di film più codificati, come degli appuntamenti da rispettare più rigorosamente, rispetto a un film d’autore che per definizione ha una libertà maggiore. Comunque, di qualsiasi genere si tratti, adesso c’è una voglia di scardinare questi appuntamenti: è un’ondata che arriva da fuori e stiamo pian piano accogliendo; con una scrittura diversa e un modo di girare diverso stiamo provando a rendere più sorprendente la linea narrativa, facendo credere che questi appuntamenti verranno rispettati ma ribaltandoli nel corso del film. Questa è un po’ la possibilità che il genere ti dà oggi: prendere un’aspettativa e ribaltarla. Per la messa in scena, pensando per esempio all’horror o al fantasy, sicuramente danno delle possibilità visive che corrispondono a un mondo, cosa che offre un grande privilegio. E al pubblico, il genere, con l’intrattenimento, permette di far ingerire racconti importanti della contemporaneità,come lo zucchero sulla pillola. Il problema è chi – per esempio rispetto all’horror, il genere visto ancora con più sospetto – pensa sia di nicchia, ma tutt’altro: è una delle forme d’intrattenimento più importanti che esitano; se arrivano horror dall’estero siano capaci di far esplodere il botteghino, verso quello italiano, forse perché non s’è fatto per tanti anni, c’è ancora grande sospetto.
Nello specifico del suo film – Piove – perché ha scelto il genere, su quali paradigmi dello stesso ha puntato e come ha costruito il film in quest’ottica?
Nel mio caso non posso dire di averlo scelto perché l’ha scelto lo sceneggiatore, io ho sposato l’idea, ma certamente insieme siamo andati verso il genere: la storia potrebbe esistere anche senza lo stesso, ma non sarebbe stata così potente; molto spesso il genere amplifica il racconto, qualsiasi cosa tu voglia raccontare funziona per iperbole. Per questo l’horror è uno dei generi migliori per raccontare la società contemporanea: senza affrontarla in maniera diretta riesce a far passare un messaggio in maniera più efficace. Negli Anni ’60 ha avuto il suo esempio migliore con Romero, e da lì in poi s’è andato a raffinare: non c’è nulla di nuovo, quindi, ma per 20/25 anni in Italia s’è fatto poco genere, e si fatica a capire che possa essere un mezzo efficacissimo anche per fare cinema politico. Piove non amo definirlo come tale, ma ho provato a raccontare un briciolo del mondo in cui viviamo e penso si possa fare anche di più. È un modo di raccontare che per me, anche come spettatore, è molto soddisfacente. E inoltre, forse, in un momento in cui gli spettatori sono sfiduciati, può aiutare a muovere qualcosa per le sale, può essere un modo per aprire uno spiraglio nel futuro della nostra industria, penso sia molto sano rischiare.
Per il suo film, in finale al Premio Caligari, e in generale per la sua idea di cinema di genere, ci sono degli autori o delle opere di riferimento?
Per questo film ho guardato molto al J-Horror, in particolare a KiyoshiKurosawa e Nakagawa. Kairo è stato il primo che ho visto, era un’accezione di horror che non conoscevo, un horror malinconico, intimista, che non ti faceva male per quello che raccontava ma perché ti offriva una visione del mondo disperata, era una cicatrice, che ti lasciava un sentimento di fondo più persistente della paura. E io ho guardato diversi film di questo meraviglioso filone, e per Piove ho pensato ai fantasmi che nel J-Horror non sono mai quelli che escono dall’armadio e ti fanno saltare dalla sedia: ho provato a prendere quell’atmosfera e portarla nel film. Poi ho guardato anche cinema più contemporaneo, come quello di Robert Eggers, un grandissimo maestro, con anche Veronika Franz e Severin Fiala: sono autori meravigliosi perché le loro sono storie di quel marcio che si nasconde dietro la patina della famiglia borghese, l’horror famigliare mi è sempre interessato tanto, inutile dire che sia un grande fan dello Shining di Kubrick, mi ha davvero cambiato la vita e mi influenza in quello che faccio, nel suo essere un maestro inarrivabile.
Claudio Caligari, a cui il premio per cui è nella rosa dei finalisti è dedicato, che passo pensa abbia impresso, nel nome del genere, nel cinema italiano?
Enorme! anche perché ha avuto il coraggio di essere un outsider, di lottare per il suo cinema, purtroppo senza quelle possibilità di continuità che hanno avuto altri autori. Caligari è un regista che io purtroppo ho scoperto tardi, a Venezia guardando Non essere cattivo: è impossibile non vedere l’importanza della sua opera; ha avuto il coraggio d’insistere: con tre film ha costruito una filmografia coerente, potente, per cui non si può non considerarla un’opera non fondamentale per il cinema italiano.
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