Non ha trovato così tanto spazio sul grande schermo il genocidio di un milione e mezzo di armeni, che vennero massacrati dal 1809 al 1920 in nome del mito della Grande Turchia, nel quale non c’era posto per le minoranze. I film si contano su una mano: Ararat (2002) di Atom Egoyan, Quella strada chiamata paradiso (588 Rue Paradis) diretto nel 1992 dal regista francese di origini armene Henri Verneuil, con Claudia Cardinale e Omar Sharif. Del resto scarsa visibilità ha avuto Destinazione nulla un documentario commissionato da RaiTre e realizzato da Carlo Massa.
Con La masseria delle allodole Paolo e Vittorio Taviani tornano dopo quasi un decennio al grande schermo, l’ultimo lavoro è stato il pirandelliano Tu ridi, seguito dai due film-tv, Resurrezione e Luisa Sanfelice. E lo fanno con il rigore di sempre, narrando l’eccidio di uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere armeni, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Un dramma corale e raffinato coprodotto da Italia, Bulgaria, Spagna e Francia con un cast innanzitutto europeo, tranne l’attore palestinese Mohammad Bakri, nel quale figurano accanto a Arsinée Khanjian, moglie del regista Atom Egoyan, gli italiani Alessandro Preziosi, Mariano Rigillo, Enrica Modugno, il piccolo Nicolò Diana. La masseria delle allodole uscirà il prossimo 23 marzo in oltre 60 copie con 01.
Come è nato il vostro film?
P. Taviani – Io e Vittorio abbiamo letto l’omonimo romanzo della scrittrice Antonia Arslan, ne abbiamo parlato a lungo. Credevamo di conoscere la tragedia armena e invece eravamo ignoranti come lo sono la cultura europea e quella internazionale. E parlare di quell’eccidio e più in generale del genocidio armeno significa avvicinarsi a drammi di oggi come quelli in Kosovo, in Ruanda, in Iraq, orrori compiuti tra etnie che convivono e ai quali abbiamo fatto l’abitudine. Il nostro film ci consente di parlare della contemporaneità, di uomini, un tempo fratelli, e ora nemici tra loro.
Come avete lavorato sul libro della Arslan?
V. Taviani – Come è già accaduto con Tolstoj e Pirandello non possiamo che ringraziare l’autore per lo spunto datoci, ma subito dopo lo salutiamo cortesemente, prendiamo la nostra strada e sulle vicende dei personaggi costruiamo il nostro film.
P. Taviani – Oltre al romanzo abbiamo letto libri di storia, come ‘Il genocidio degli armeni’ di Marcello Flores. E poi siamo stati a Erevan dove abbiamo incontrato diverse famiglie armene. Questo popolo, spesso ignorato da molti, dopo decenni attende ancora giustizia. Nella nostra sceneggiatura la parte relativa alla famiglia armena che vive in Italia era molto più ampia e poi si è ridotta.
V. Taviani – In fase di montaggio abbiamo tagliato alcune scene, che riproporremo negli extra del Dvd. Volevamo che la dimensione temporale non andasse oltre le due ore per conservare il suo ritmo poetico.
Il vostro è un affresco storico?
V. Taviani – A noi non interessava offrire un trattato di storia, ma seguire i destini, a volte misteriosi, di alcuni personaggi, collocandoli in un grande evento collettivo. Il nostro è un film di amore e odio che si conclude nonostante tutto con la parola amore. Quella pronunciata dal soldato turco che, di fonte al tribunale, denuncia se stesso per aver ucciso la donna armena che ha amato.
Nel film si vedono alcune fotografie dell’epoca che ritraggono le marce forzate delle donne e alcune stragi, come siete entrati in possesso di questo materiale?
P. Taviani – Sono pochi i documenti fotografici disponibili, noi abbiamo utilizzato le fotografie scattate da un ufficiale tedesco della sanità – considerato dalla comunità armena un “Giusto” – quando la Germania era alleata della Turchia. Si tratta di parte di una ricca documentazione sfuggita al sequestro che ne fecero i turchi. E proprio a quell’autentica memoria fotografica si è ispirata la scena delle crocifissioni. Inoltre abbiamo visionato dei documentari trovati da un nostro amico nella cineteca russa che provano le stragi compiute.
Che pensate del futuro ingresso della Turchia nell’Unione europea?
P. Taviani – E’ una tappa necessaria per stabilire un ponte tra il mondo europeo e quello mediorientale, ma occorre che la Turchia riconosca la tragedia del popolo armeno e condanni quel progetto della ‘Grande Turchia’ che mosse allora il partito dei ‘Giovani Turchi’. Del resto in Europa i tedeschi, con fatica all’inizio, hanno riconosciuto il genocidio degli Ebrei, e noi italiani abbiamo condannato nella nostra Costituzione il ventennio fascista. Inoltre il governo di Ankara deve abolire il famigerato articolo 301 del codice penale, quello che parla di “oltraggio alla Turchità” e grazie al quale è stato avviato un procedimento penale contro lo scrittore turco Orhan Pamuk.
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