Paola Randi: la vera integrazione si vede solo a Napoli


VENEZIA – Accoglienza calorosissima alla Mostra per Into Paradiso, film presentato in concorso nella sezione Controcampo italiano, che è stato prodotto dalla Acaba di Fabrizio Mosca, con il riconoscimento di interesse culturale nazionale dal Mibac, il contributo della Regione Campania, e la collaborazione di Cinecittà Luce che si occuperà anche di distribuirlo, il prossimo inverno. Nato da un lavoro lungo 4 anni, tra ideazione e post produzione finale, il film è la storia di Alfonso (Gianfelice Imparato), scienziato di mezza età che lavora sulla migrazione delle cellule per l’università e viene licenziato in tronco, causa tagli alla ricerca. Timido e relegato a una vita chiusa ad ogni stimolo o intrusione esterna, vissuta tra le quattro mura di casa, Alfonso vede nella vecchia amicizia con Vincenzo (Peppe Servillo, vocalist degli Avion Travel, già comparsi in Passione di Turturro, che stasera suoneranno alla festa in onore del film sulla Terrazza dell’Excelsior), un imprenditore di successo ora candidato alle elezioni, l’unica possibilità di trovare un nuovo lavoro tramite raccomandazione. Lo scienziato non sa che Vincenzo deve tutto alla camorra e che in cambio della promessa di una sistemazione gli sarà chiesto di portare un regalo, una scatola, che in realtà contiene una pistola per un regolamento di conti. Fallita la consegna, Alfonso si nasconde tra i popolosi vicoli di Napoli dove finirà per aprirsi alla vita grazie alla convivenza forzata con una comunità di srilankesi e Gayan (Saman Anthony), un ex campione di cricket caduto in disgrazia. Un film che racconta l’immigrazione in modo leggero e che pur essendo ambientato a Napoli non vuole denunciare ma raccontare con l’arma dell’ironia situazioni spinose per dare, infine, spazio alla speranza. Come ha detto a CinecittàNews la regista, l’esordiente Paola Randi, entusiasta alla sua prima esperienza alla Mostra di Venezia: “Vengo da una famiglia di immigrati: mio padre è palermitano, mia madre veneziana, io vivo a Roma, e mia sorella è a Londra. E’ evidente quanto questo tema mi sia sempre stato a cuore, aspettavo solo di trovare la storia giusta”.

Qual è stata la molla che l’ha spinta a fare questo lungometraggio?
Un’immagine, forte e bellissima. Un angolo di piazza Dante a Napoli diviso pacificamente tra scugnizzi che giocano a calcio e un gruppo di srilankesi intenti in una partita di cricket. La sintesi perfetta di ciò che significa vera integrazione. Napoli è il termometro d’Italia, è sempre un pò avanti rispetto alle altre città.

Inizialmente il film doveva intitolarsi ‘O fodero (parola che indica una persona sacrificabile). Come si è arrivati a Into Paradiso?
Con l’aiuto del pubblico. Il primo titolo piaceva solo a tre persone tra tutto il team tecnico e non sapevo decidermi. Poi vado a Roma a presentare il corto La Madonna della frutta, che era in lizza per i David di Donatello, e mi viene in mente di chiedere al pubblico un parere. Qualcuno fa i test screening, io ho fatto il title screening: la platea ha promosso Into Paradiso col suo misto di inglese, cingalese, italiano.

Nella pellicola lei ha messo molto di suo, oltre all’interesse per l’immigrazione. Il protagonista infatti fa un lavoro particolare, è un ricercatore come sua sorella. E’ solo un gesto affettuoso o c’è dell’altro dietro alla scelta?
L’una e l’altra cosa. Ho voluto che Alfonso studiasse la migrazione delle cellule, cioè il modo in cui le cellule comunicano tra loro, perché mi sembra che ci sia un bel parallelismo tra la coesione del mondo cellulare e quella della comunità srilankese dove si rifugia. Il paradosso è che uno che si occupa di comunicazione, seppure a livello microscopico, e che se ne occupa molto bene, è davvero un principiante quando poi deve rapportarsi ai suoi simili, nel mondo a dimensione normale.

Lei rappresenta i camorristi e le loro malefatte in un modo lontanissimo dalla cruda realtà mostrata da film come Gomorra e Napoli, Napoli, Napoli. Non teme l’effetto macchietta per la leggerezza che ha usato?
Questo non è un film di denuncia. Io sono una fan del genere, ma non è quello che volevo fare. A me interessava mostrare come la convivenza forzata possa cambiare le vite delle persone. I criminali sono coinvolti solo marginalmente perché sfiorano solamente la vita delle persone perbene, e li ho rappresentati con ironia. Non vedo perché non si possa scherzare un po’ anche su di loro?

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07 Settembre 2010

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