Nella mente del genio: Sherlock Holmes

Una vita da protagonista. Personaggi che hanno cambiato per sempre la serialità televisiva


Il mondo per Sherlock si divide perfettamente in due. E se da una parte ci sono le cose che servono, dall’altra ci sono quelle inutili. Negli anni ha perfezionato il suo metodo, è diventato uno degli investigatori più bravi e apprezzati (con qualche riserva) del mondo. Scotland Yard, quando è in difficoltà, non esita a contattarlo. Sherlock vede dettagli che le altre persone non riescono nemmeno a notare: un trolley ha una vita precisa, ci dice dove è stato il suo proprietario, su quali terreni ha camminato; lo stato di uno smartphone, invece, si trasforma in uno specchio in cui si riflettono i peccati e il carattere di chi l’ha usato. Un cadavere non è solo un cadavere, ma una mappa da studiare, un racconto da finire e approfondire; una storia che si articolo scientificamente tra pro e contro, azioni e reazioni.

Sherlock è solo, e lo sa. Ma non gli pesa. O almeno non gli pesa finché nella sua vita non arriva Watson e tutto, improvvisamente, assume un’altra consistenza. Il suo lato più umano, e quindi più fragile e imprevedibile, torna a farsi avanti, a pretendere e a urlare più spazio. I casi si rincorrono, si fanno più o meno facili e i rompicapo smettono di essere un gioco. Sherlock appartiene e non appartiene alla sua epoca: è contemporaneamente geniale e antico, nuovo e conservatore, scienziato e creativo. Trova sempre un modo per andare oltre e non fermarsi davanti agli ostacoli che, per gli altri, sembrano impossibili da superare.

È un attore, un musicista, un discreto chimico. Ha studiato medicina legale, matematica, fisica. Conosce il combattimento a mani nude e la scherma. Non segue le mode. Anzi, non gli interessano perché non crede che possano aiutarlo nel suo lavoro. Ha un rapporto teso con suo fratello Mycroft e non parla quasi mai della sua famiglia, dei suoi genitori e della sua infanzia. È uno dei suoi grandi misteri. Sembra essere comparso dal nulla. Sa a memoria la mappa di Londra, con la metropolitana e tutte le sue vie e stradine secondarie. Suona il violino per rilassarsi e concentrarsi.

Vive come in una bolla, e nonostante la sua incredibile preparazione, proprio per questa sua riservatezza fredda e distaccata, ha bisogno di essere protetto dal mondo esterno. In molte cose è inesperto, ingenuo, praticamente alle prime armi. Non riconosce l’amore per ciò che è, e ci mette molto tempo per ammettere di tenere alle persone. Cerca di mantenere continuamente la calma, perché sa che la rabbia non è altro che un ostacolo. Come, ripete, qualunque altra emozione.

Apatico, rigido, fascinoso. Sherlock Holmes rappresenta il prototipo del detective moderno. Steven Moffat e Mark Gatiss, che hanno creato la serie della BBC, sono partiti dai libri di Sir Arthur Conan Doyle e si sono velocemente spostati altrove. Hanno riadattato e aggiornato la sua personalità. Siamo in una Londra moderna, contemporanea, piena di tecnologia – tema ricorrente all’interno di Sherlock – e di persone. Più luci, più politica internazionale e il terrorismo al centro di qualunque dibattito. In qualche modo, l’eccezionalità del personaggio diventa più accettabile e comprensibile.

Benedict Cumberbatch, che interpreta Sherlock, è stato in grado di dargli una sua riconoscibilità e una sua consistenza, senza scadere in un “macchiettismo” didascalico e contorto. Le battute che dice, le espressioni che fa e persino i silenzi che prende hanno un peso preciso all’interno non solo del racconto, ma della costruzione stessa del personaggio: possono ritornare in qualunque momento, in un altro episodio o in un’altra stagione, per ricordarci che quello che abbiamo davanti non è un semplice individuo con le sue ossessioni, le sue storture e i suoi desideri. Funziona come una scacchiera: a ogni mossa corrisponde una contromossa, e anche se una partita è sempre differente da quella che seguirà e da quella che l’ha preceduta è abbastanza intelligibile.

Non c’è il tormentone di Dr. House, “le persone non cambiano” (tra parentesi: pure quella serie si ispirava allo Sherlock Holmes di Doyle). C’è però un’idea abbastanza chiara di quanto sia difficile riuscire a venire a compromessi con sé stessi, a fare un passo in avanti e a liberarsi dai propri pregiudizi e dalle proprie convinzioni. Che cos’è che rende un uomo un uomo buono? E che cos’è, poi, che lo rende un esempio per gli altri? È meglio chi porta risultati, rimanendo freddo e impassibile, pressoché inavvicinabile, o chi ci prova con fatica e nel frattempo ci tiene la mano? Sherlock – la serie, sì, ma pure il personaggio – è una riflessione sulla contemporaneità e sulla trasformazione che ha investito l’essere umano.

Gianmaria Tammaro
06 Aprile 2024

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