Ho visto La stanza del figlio di Nanni Moretti. E l’ho amato molto.
Lo dico da spettatore, non da collega. E neanche da amico di Nanni. La stanza del figlio è il suo film più importante. E’ un film in cui Moretti spiazza tutti. Si aspettavano un film politico, una molotov, un urlo, e lui fa un film intimista. Nel quale non pontifica, non urla, non sottolinea, non contesta. Sta in silenzio. E quei silenzi colpiscono più di mille parole.
Racconta la vita di provincia. La nevrosi di una vita asettica, banale, piatta, di una città normale. Più ancora che sulla morte di un figlio, questo è un film in cui Moretti racconta un altro dolore, un disagio sottile. Che inizia in quella casa fatta di corridoi, in cui l’arredamento, a parte i libri, sembra invisibile. Inizia nelle scene in cui Moretti fa jogging, il travestimento salutistico di una continua fuga. Inizia quando segue, senza una ragione, la felicità esibita degli Hare Khrisna. Che continua, nella galleria di pazienti – cioè, di varia umanità – tutti ugualmente egoisti, che lo trattano come un punching-ball per la loro rabbia. E Moretti, per la prima volta, incassa.
Non è mai stato così indifeso, così vulnerabile.
Poi, c’è il dolore. O meglio, l’intollerabile spettacolo del dolore che disunisce. Il racconto degli effetti del dolore.
Infine, c’è il cast. La migliore Laura Morante di sempre, brava persino nei silenzi. C’è un Moretti alla sua interpretazione più misurata: un senso che è segno di maturità. Un Moretti che supera il didascalismo politico, e che lavora sui silenzi, sui toni sommessi. Una svolta che può portarlo a sviluppi ancora più importanti.
Un grande film. Un raggio di sole in un panorama di cinema italiano che comincia a rischiararsi.
(testo raccolto da Giovanni Bogani)
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La redazione va in vacanza per qualche giorno. Riprenderemo ad aggiornare a partire dal 2 gennaio. Auguriamo un felice 2018 a tutti i nostri lettori.
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