“A me La stanza del figlio è piaciuto moltissimo”, dice Sergio Staino, vignettista, papà di Bobo, personaggio a fumetti famoso e amato quanto Charlie Brown. “E’ un film la cui meraviglia non finisce alla prima visione. Sono sicuro che fra vent’anni scopriremo ancora delle cose, dentro questo film”.
Nella vignetta, Bobo è in lacrime… Ma in che cosa differiscono le lacrime di Bobo, oggi, da quelle di sua madre per i melodrammi con Amedeo Nazzari?
E’ completamente un’altra cosa. Quei melodrammi lavoravano sull’eccesso: calcavano, esasperavano i toni, spingevano all’estremo limite. Moretti fa esattamente il contrario: lavora per sottrazione. Toglie, dirada, alleggerisce. I toni della recitazione. Scarnifica i dialoghi. Sceglie la semplicità dei movimenti di macchina. E ciò che rimane è l’essenziale. Un melodramma zen. Proprio per questo, incredibilmente più intenso.
Quali scene l’hanno colpita maggiormente?
L’invenzione poetica del personaggio di Arianna, l’amica del figlio. Quella che forse è stata la fidanzata di un giorno. Perché da lei – da un gesto di solidarietà semplice, spontaneo, non obbligatorio, e persino un po’ impacciato di lei, rinasce tutto. Attorno a lei rinasce la prima risata. Una presenza casuale, l’irrompere del mondo esterno, muove la famiglia e la fa ritornare unita.
La famiglia. Quella di Moretti, nel film, sembra una perfetta famiglia borghese. Che cosa c’è di nuovo? Cos’è “di sinistra” in quella famiglia?
A prima vista potrebbe sembrare una famiglia di quelle che piacciono a Wojtyla. Ma la differenza è questa: la famiglia classica è un guscio, un elemento di difesa dal mondo esterno. Questa famiglia si apre all’esterno: trova, nel rapporto col mondo, la forza per esistere ancora.
Anche lei ha un figlio adolescente. Ha provato le stesse apprensioni, si è fatto le stesse domande di Moretti nel film?
Sì. Direi che è una preoccupazione costante di noi genitori middle class e progressisti, la protezione esasperata dei figli; la paura che non ce la facciano, che non abbiano la forza vitale che ci spingeva. Ed è uguale il mistero che i figli rappresentano ai nostri occhi: la scoperta, in rari squarci, di un mondo di emozioni loro che ci erano ignote, che abbiamo ignorato per anni.
Si è detto che con questo film la sinistra riscopre il dolore…
Non lo ha mai dimenticato. Molti film della sinistra riguardano eventi estremamente dolorosi. La differenza è che qui non si parla di un dolore collettivo, ma di un dolore individuale. E la novità è che la famiglia viene individuata come uno dei nuclei di resistenza, contro la tensione all’individualismo sfrenato ed estremo che ci ingoia. Un nucleo di resistenza laica, che ci porta a solidarizzare.
La scena che adesso le viene in mente… Mi ha colpito una cosa che Moretti non aveva fatto mai: mostrare un seno nudo. Il seno nudo di Laura Morante mi sembra anche il simbolo – tanto più forte e intenso in Moretti, perché unico nella sua filmografia – della felicità, della vitalità e della gioia, anche fisica, che vive nella prima parte del film. E che rende più feroce la crisi successiva.
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