SPELLO – “Mi avevano detto che non c’erano ruoli per i neri, ma alla fine mi presero”, parola di Miguel Gobbo Diaz, protagonista della serie Nero a metà, nella Giuria di selezione dei Cortometraggi alla XII edizione del Festival del Cinema Città di Spello e dei Borghi Umbri: s’è formato al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove in tutta la Storia della Scuola è stato il secondo allievo nero.
Partendo dalla sua dichiarazione e pensando all’attualità recente, agli Oscar, dove s’è rinnovata una grande attenzione per l’inclusione, premiando, tra gli altri, due attori asiatici, Michelle Yeoh e Ke Huy Quan, secondo il suo punto di vista artistico, in questo momento c’è ‘un’ossessione’ rispetto alla messa in pratica del concetto nello spettacolo, oppure è corretto sia così attenzionato?
Sono sempre perché le cose avvengano in modo naturale, senza forzare la mano, certamente imponendosi con positività. Io ho iniziato a studiare recitazione del 2009: quando ho scoperto l’esistenza del Centro Sperimentale, ho anche scoperto di non essere l’unico, ma il secondo – nella Storia della Scuola, in 75 anni – allievo nero. Sono stato il primo veneto nero dentro alla Scuola, mi diverte metterla così! Non è stato facile, però, allo stesso tempo, non ho mollato. Infatti ho scritto uno spettacolo teatrale, L’inizio di un sogno, portato in scena recentemente, con già tre giorni sold out in Veneto intanto, alla presenza di 500 persone: ha fatto successo perché ho portato una parte di me, raccontando le difficoltà, sia mentre crescevo sia nel percorso che mi ha portato a diventare un attore. Lì c’è tutto me stesso e anche questo tema dell’inclusione: io però, ripeto, non ho mai cercato di forzare la mano; c’erano molte persone che mi dicevano fosse difficile, che non fossi utilizzabile sul mercato, per mancanza di ruoli adatti, ma io non li ascoltavo, ci rimanevo male ma mutavo tutto in positività cercando di dare il massimo, e poi le cose sono venute da sé, così fare Nero a metà: sono stato il primo nero a interpretare il ruolo positivo di un poliziotto, in un progetto che fino ad ora conta tre stagioni. Quindi, che si tratti di identità di genere, di colore della pelle, se tu forzi la mano è sempre sbagliato; dobbiamo focalizzarci sulla qualità: così una donna può essere bravissima, quanto un uomo, e il contrario. Credo che in Italia ci diamo poco l’opportunità di sperimentare cose diverse: se ci dessimo più permesso di sperimentare, potrebbe solo aumentare la qualità.
Si può dire che lei stia festeggiando il primo decennio di carriera: il primo lavoro fu nel 2012 come protagonista di puntata nella serie Il commissario Rex. Come ricorda l’approdo su quel primo set, comunque di un progetto molto popolare e di successo, non certo di seconda linea, e come è ‘maturato’ nel frattempo? E il suo presente è sinonimo di…?
…fiducia, crederci e essere sempre positivi, con amore. Nel 2012, con la regia dei Manetti bros., arrivo sul set di Rex pieno di cose belle, mentre ancora frequentavo il primo anno al CSC: lì cercavo di tirar fuori tutto quello che avevo; da protagonista di puntata hai pochi giorni di set e quindi pensi di dover dimostrare tutto, infatti riguardandomi di recente riconosco quante cose avessi ancora da imparare, ma tutto è servito, come girare dopo Leoni e ancora La grande rabbia. Poi sono partito per Londra: lì è stata una grande spinta. Mi trovavo in una fase in cui in Italia non succedeva niente, il vuoto, non c’erano provini, l’unica cosa che pensavo era capire come migliorare me stesso, così ho puntato sul migliorare l’inglese; sono andato là a fare il barista in un cinema e a studiare, anche recitazione. Nero a metà l’ho preso facendo avanti e indietro tra Londra e Roma per i provini: ho girato tutta la prima stagione in Italia, poi sono passato per casa mia a Vicenza, e infine sono tornato ancora a Londra; bisogna continuare a essere attivi, mantenere la vita in azione, perché altrimenti ti adagi. Anche adesso, dopo l’uscita dell’ultima stagione di Nero a metà, gli ultimi mesi sono passati meno densi: ho girato L’amor fuggente, ma poi più niente e così mi sono dedicato alla scrittura e alla messa in scena del mio spettacolo.
La serialità – un linguaggio strutturale specifico – è quella che le ha dato maggiori opportunità: dal 2018 è appunto tra i protagonisti di Nero a metà, con Claudio Amendola. Che ‘scuola’ è recitare nel racconto seriale?
Una parola: velocità. Devi essere attivo, lucido, preparato in ogni secondo. La velocità in una serie è 5/6 volte di più rispetto a quella del cinema. Dal punto di vista del mestiere è una scuola incredibile, non c’è niente di più. Sono naturalmente molto cresciuto anche grazie alla fiducia riposta in me da Marco Pontecorvo, insieme a quella di Claudio: è stata una lezione fondamentale.
L’esperienza di Nero a metà è stata per la Rai, tv tradizionale e generalista per eccellenza; poi, tra le altre esperienze di serie, anche quella di Zero (2021), invece per Netflix. Differenti modalità creative e produttive hanno una ricaduta artistica sull’arte dell’attore?
Dipende sempre da come è scritto e da come è realizzato. Ci sono prodotti che funzionano tantissimo, sia in Rai che in Netflix o altre piattaforme, e non importa l’appartenenza: se il prodotto è di qualità al pubblico arriva. Naturalmente, l’esistenza di entrambi porta tantissime opportunità di fare provini, anche internazionali, però dipende sempre anche da cosa ti viene proposto. Sicuramente a troppa produzione può corrispondere un abbassamento della qualità.
Il pubblico è il giudice del successo, per i racconti tv particolarmente: qual è il suo sguardo verso il pubblico? Ci pensa mentre lavora?
Io penso sempre che, se lavori con onestà, non devi pensare al pubblico, che l’apprezza. Se pensi soltanto a fare in base a come pensa il pubblico diventa forzata la cosa, se invece procedi con genuinità io credo che l’apprezzi sempre. Certo, a volte abbiamo la responsabilità di fare delle scelte, pensando che ci possano essere persone che si rispecchiano nella tua immagine, o in te, e lì è una questione d’intelligenza.
Al pubblico però è di certo ‘arrivato’, lo dimostra anche l’essere stato candidato ufficialmente – in queste ‘ore’ – per il Ciak d’Oro, nella categoria Attore Italiano di Serie.
È successo l’altro giorno che sfogliassi ‘Ciak’, finché a un certo punto vedo la mia faccia! Non mi ero ancora accorto del tag via social, così è stata una bellissima sorpresa: è una soddisfazione. Sono il primo nero candidato al Ciak d’oro (ride)!
Lì è lei a essere candidato, mentre qui a Spello è chiamato a giudicare, in quanto parte della Giuria dei Cortometraggi. Per un attore, qual è il valore concreto di ricevere un premio? E invece come si pone nel giudicare, consapevole dell’influenza di un giudizio?
Ci sono molti premi che ti permettono di acquisire un valore, è una riconoscenza a quella che è stata la tua creazione, il tuo impegno. Il premio è la massima riconoscenza per un progetto, ma cerco sempre di ripetermi che ho ancora tante cose da fare: non che non mi basti un premio, ma il mio è un meccanismo per continuare a essere chi si è. Nel giudicare, invece, guardo ciò che mi attira, anche empaticamente: se una storia ti attira per me dev’essere premiata. Qual è quello che mi è rimasto più impresso? Perché? Come si sviluppa? Il corto ti rimane in testa e se continua a interessarti, ad aumentare la curiosità su come potrebbe svilupparsi, vuol dire che ha funzionato.
E, a proposito di film, nella sua carriera sta succedendo qualcosa?
Sì, sto preparando un film sul golf, il primo film italiano sul golf. Mi sto allenando da ottobre come un professionista, con un grande maestro inglese: il film si intitola Il tempo è ancora nostro, scritto e diretto da Maurizio Matteo Merli, figlio del grande Maurizio; ci saranno Ascanio Pacelli, in quanto golfista, nel suo primo ruolo da protagonista, poi Mirco Frezza, Antonello Fassari, Simone Sabani. Iniziamo a girare a fine maggio, inizio giugno. L’amor fuggente, poi, dovrebbe uscire nelle prossime settimane.
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