Fabio Frizzi: “Fantozzi, ovvero quando Paolo Villaggio mi parlò di Cat Stevens”

L’intervista al compositore, che a Spello riceve il Premio Carlo Savina 2024: “La cosa che forse gli ‘invidio’ di più è la sua grande capacità di orchestratore nell’ambito del grande cinema”. La cerimonia di premiazione è sabato 18 marzo alle 17


1927, Il cantante di jazz di Alan Crosland: è stato scandito qui l’avvento del sonoro nel cinema.

Da questa data simbolo, da questa opera per il grande schermo, si è cominciata a scrivere la Storia d’amore tra la visione e la musica, con la complessità e l’articolazione della colonna sonora, sintesi degli eventi sonori, dai dialoghi alla musica appunto.

Il Festival del Cinema di Spello e dei Borghi Umbri, nello spirito che lo contraddistingue per la valorizzazione dei mestieri del cinema, dal 2016 ha scelto di istituire un premio che celebrasse l’arte musicale per l’audiovisivo e di dedicare un premio, il Premio Carlo Savina, a un compositore e direttore d’orchestra che nel suo percorso artistico ha saputo interpretare le tendenze più significative della musica del ‘900.

“Il Premio viene attribuito al migliore apporto creativo musicale destinato ad un racconto per immagini, sguardi e situazioni che mirano a potenziare emozioni e coinvolgimento dello spettatore”, recitano le intenzioni ufficiali del riconoscimento e il Premio Carlo Savina 2024 è conferito a Fabio Frizzi.

Maestro, ha avuto occasione di conoscere personalmente il maestro Carlo Savina? Cosa rintraccia e considera particolarmente interessante della sua creatività e produzione di musica per il cinema?
Carlo l’ho conosciuto molto bene, nonostante fosse grande d’età, ma quando si fa lo stesso lavoro e si hanno le stesse passioni ci si ritrova molto vicini; è stato una persona con cui ho condiviso momenti belli – pranzi, cene e chiacchierate -, e che mi ha dato diverse dritte, soprattutto sul versante della direzione d’orchestra, che non era il mio specifico. Seppur di una generazione precedente alla mia, come tutti i musicisti che hanno amato il cinema, Carlo ha proceduto sulla strada comune della capacità del commento, dell’entrare nelle storie come se ci si vestisse delle stesse, ma la cosa che forse gli ‘invidio’ di più è la grande capacità di orchestratore nell’ambito del grande cinema; lui ha lavorato molto per se stesso, ha fatto tantissimi film propri, ma è stato anche un collaboratore di Nino Rota, per me una leggenda: quando mi è capitato di dirigere concerti, all’epoca in cui ancora s’andavano cercando le partiture in giro, ho trovato delle cose straordinarie – da Il Padrino in là – che Carlo Savina aveva orchestrato per conto di Rota, e sono nella Storia della musica ma per tutti, infatti basta fischiettare un passaggio anche secondario perché tutti se ne ricordino.

A proposito di leggende, una che la riguarda racconta che abbia deciso di intraprendere la carriera dopo aver assistito, grazie a Sergio Leone, alla registrazione della colonna sonora di Giù la testa. Qual è il ricordo di quel momento e cosa, musicalmente parlando, le suscitò il clic da cui tutto ebbe origine?
C’è da considerare che io fossi un privilegiato, perché figlio di un uomo di cinema (Fulvio Frizzi, distributore cinematografico, ndr), quindi quell’appuntamento lo estorsi a mio papà, che era amico di Leone, che conoscevo un po’ anch’io: avevo appena finito il liceo. Il gancio mi fu fornito da mio padre, dunque, che mi disse che Sergio avesse accordato di andare tranquillamente a trovarlo, all’International Recording, una sala di registrazione dove prima si faceva anche musica, poi è stato un grande centro di doppiaggio, e adesso purtroppo non c’è più. La cosa curiosa che unisce quella storia alla bella occasione del Premio di Spello è che quel giorno conobbi, oltre a Ennio Morricone e all’adorabile moglie di Leone, anche Federico Savina, fonico di registrazione di quella colonna sonora. Morricone lo amavo tanto – perché non conoscevo ancora il suo carattere (ride): conoscevo molto bene la sua musica, vivevo nel cinema da quando avevo tre anni, e lui è stato molto carino, perché da lì mi ha permesso poi di seguirlo nelle successive registrazioni, quando avevo 19/20 anni, per cui per qualche anno la mia formazione – à côté della Giurisprudenza, che stavo studiando ma che non mi entusiasmava – ha goduto della frequentazione delle sale di registrazione grazie al fatto che Morricone me lo permettesse, un privilegio assoluto. Poi trovai un editore musicale, Carlo Bixio, che mi diede una grossa spinta, e a 23 anni feci il mio primo film.

Il titolo che l’ha battezzata al grande pubblico è stato Fantozzi. Era il primo ‘della serie’, tutto sarebbe stato possibile, il successo non era scontato ma, dal suo punto di vista, come diede personalità musicale a quel film?
Nella vita ci vuole fortuna o, come si dice, ‘trovarsi nel posto giusto al momento giusto’. Bixio mi mandò a parlare con Villaggio, che io amavo come comico televisivo, per le sue cose molto graffianti, che a un ragazzone come me divertivano molto; l’incontro fu estremamente emozionante, anche perché non va immaginato come fosse oggi: allora, un ragazzo di 23/24 anni che si affacciava al proprio lavoro dava a quel momento importanza e emozione. La cosa che ci unì – a proposito di ‘posto giusto al momento giusto’ – fu che, parlando, Paolo mi citò un film, Harold e Maude, e mi disse che le musiche erano di Cat Stevens: come si dice in geometria, bastò ‘unire i due punti’; io amavo tantissimo la musica Country americana, e ovviamente anche questo Signore inglese. Ero riuscito a entrare nell’idea di Fantozzi perché avevo letto i libri, che mi avevano conquistato, senza sapere che poi avrei incontrato Paolo: lì ho fatto l’operazione che cerco di fare tutte le volte che lavoro su un film, ovvero indossare quel ‘vestito’, così mi sono sentito dentro al tema, in quella ballata, che porta molto divertimento ma, secondo me, anche una vena di tristezza.

Nella percezione popolare, l’idea della musica da cinema fa immaginare grandi orchestre e il classico pianoforte come strumento principe ma – seppur questo appartenga alla sua formazione – la chitarra classica è nel suo cuore, la compagna di vita musicale: nasce sempre tutta con lei la sua musica per il cinema? Perché questo strumento è il suo prediletto?
La chitarra è prediletta perché ho cominciato con lei e il primo amore non si scorda mai, anche se la chitarra a volte si scorda (ride)! Io sono un signore maturo con 50 anni di carriera, che però ha cominciato tentennando, con mille dubbi, ma oggi, quando devo scrivere qualcosa, so in che stanza andare e con quale strumento: la chitarra rimane uno strumento che mi stimola con grande facilità idee e percorsi, però scrivo sia con quella che con il pianoforte; è come poter avere a disposizione due alfabeti differenti, per cui mi viene da dentro l’idea sul personaggio, su quello che voglio dire, e a volte li metto tutti e due – chitarra e pianoforte -, con i centinaia di spunti che raccolgo nei nuovi registratori, cioè i telefonini; mi metto in una stanza con una delle mie chitarre e il pianoforte – alla mia scuola di musica, nell’aula di canto, ho ancora quello di tutti i temi di Lucio Fulci, quindi vado da questo strumento e gli chiedo ‘raccontami qualche storia’ e lui è molto generoso.

Lei ha lavorato attraversando molta Storia del nostro cinema, da Corbucci ai fratelli Vanzina, ma un sodalizio è stato proprio quello con Lucio Fulci*, maestro di genere cinematografico: ecco, il genere, che ha in sé dei canoni, degli stilemi, dal punto di vista musicale, l’ha educata a stare dentro dei ranghi, oppure l’ha stimolata in qualche maniera a sperimentare? Ha fatto sedimentare qualcosa nella sua creatività che tutt’oggi porta con sé e riconosce come ‘imparato dal genere’?
Una domanda estremamente raffinata! Lucio era considerato – soprattutto dai francesi ma in tutto il mondo, ancora oggi che è amato in modo incredibile – ‘il terrorista dei generi’: lui faceva una commedia ma si sentiva il suo graffio, poi faceva un western e si avvertiva qualcosa di davvero suo, in qualche modo ‘segnava il territorio’. Io, con lui ho cominciato con un western, I quattro dell’Apocalisse (1975), ma penso soprattutto nell’horror – genere che ho frequentato tanto insieme -, che nasceva dall’idea di archi dissonanti, con Bernard Herrmann che lavorava con Hitchcock che ci aveva abituati a effetti musicali fatti con l’orchestra, e quando sono arrivato io – da Zombi 2 in poi – cosa dovevo fare, rifugiarmi lì? Lucio era uno che ti dava la briglia sciolta sul collo, quindi piano piano ho trovato una mia personalità, molto discostata rispetto al classico ‘effettaccio’, che – per carità – ogni tanto si mette nell’horror, per creare il momento di panico improvviso però mi dicono… lì ci sia una vena di introspezione, malinconia, che spesso commenta scene terribili, eppure funzionando. Proprio nei giorni scorsi – e sempre ricordandomi che sono un musicista amato ma non un genio – alcune persone mi hanno ribadito che i film di Fulci abbiano un significato importante perché la mia musica li ha in qualche modo condizionati: rispondo sempre ‘non è vero’, ma ammetto che un po’ di gioia questo pensiero della gente me lo dia, un po’ di orgoglio.

Nel tempo recente e recentissimo della musica da cinema in Italia, lei avverte delle tendenze, delle ricerche interessanti, degli stimoli: insomma, qual è lo stato di salute nel nostro Paese?
Secondo me ha bisogno di un po’ di antibiotico (ride), così forse si salverà. L’evoluzione della musica da cinema, in generale e anche qui da noi, è traumatica perché è passata da un pianoforte e strumenti classici al fatto che se non pratichi un po’ di sound design vai contro natura. Credo che tutto il sistema-spettacolo in Italia abbia bisogno di un po’ di vitamine, ma io ho fiducia, soprattutto quando si va fuori: il ‘nemo propheta in patria’ funziona tanto bene all’estero, ma è altrettanto vero che quando ti presenti come ‘italian composer’ la gente è eccitata, è felice, quindi abbiamo seminato bene, almeno nel passato, dunque credo dobbiamo ricominciare a seminare un po’ e penso che un grande paradigma sia avere la consapevolezza delle proprie possibilità, ma anche una grande dote di modestia e piedi per terra, così si può ricominciare in modo giusto.

Nell’ottobre 2020 viene pubblicata l’autobiografia Fabio Frizzi – Backstage di un compositore, la cui versione inglese Backstage and Beyond – An autobiography è uscita nel 2023.

Dal 2016 collabora con l’etichetta americana Cadabra Records, scrivendo musica sulle opere di H.P.Lovecraft e E.A.Poe. Cadabra ha anche pubblicato il doppio album The Beyond Composer e un nuovo rivoluzionario progetto, Zombies The Composer, appena edito. *Il 28 ottobre scorso ha festeggiato il decennale del progetto F2F – Frizzi 2 Fulci sul palco londinese della Union Chapel.

La cerimonia di premiazione del Maestro Frizzi – a ingresso libero – è sabato 18 alle 17, presso l’Auditorium San Domenico di Foligno.

Nicole Bianchi
15 Marzo 2024

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