E’ di Michelangelo Frammartino il terzo film italiano a Cannes, Le quattro volte, opera poetica sui percorsi dell’anima che ha fatto innamorare il delegato generale della Quinzaine des Réalisateurs Frédéric Boyer. Le quattro volte sono le quattro forme della vita, i quattro “involucri” che assume un’anima passando attraverso la polvere: dal corpo di un pastore arrivato alla fine della sua esistenza a quello di un capretto appena nato, da questo al grande abete sotto cui si era fermato a riposare dopo aver perduto il gregge, fino al carbone lavorato con riti ancestrali dai carbonai calabresi. Quasi muto e impreziosito da immagini di grande fascino, il film – coprodotto da Italia, Germania e Svizzera con un budget di circa 1 milione di euro – ha richiesto lunghissimi tempi di elaborazione, considerando che la sua prima bozza risale al 2005.
Il film è ambientato in un paesino calabrese. E’ da lì che sono venute le suggestioni della storia?
Io sono nato a Milano ma sono di famiglia calabrese, e come succede a molti figli di immigrati il mio luogo d’origine è anche il mio luogo dell’immaginario. La Calabria mi ha influenzato molto a livello cinematografico per il suo concetto di spazio: è un luogo aporetico, dove la divisione tra interno ed esterno non è forte come a Milano. Tutto ciò ha influenzato le mie inquadrature, il mio linguaggio e il mio modo di fare cinema. Detto ciò, il mio amico Luigi Briglia aveva insistito per mostrarmi alcuni luoghi e situazioni, come quello dei carbonai e la festa dell’albero. Sono stato io invece a trovare e inserire la componente animale e umana. Si può dire che il film mi sia quasi venuto addosso.
Qual è il viaggio che si compie ne Le quattro volte?
Il film è diviso in quattro luoghi che confluiscono in un solo viaggio. Il primo episodio è tradizionale, di messinscena e recitazione, e anche se è recitato da un non attore, è molto costruito. Nel secondo c’è la bestia, è lei che ti dirige e ti fa perdere il controllo, in modo simile a ciò che accade alla festa dell’albero, dove non ero io che dettavo i tempi. Mi interessava il concetto dello smarrimento del controllo e dare dignità di racconto a ciò che di solito resta sullo sfondo.
Il film ha un’anima documentaria: quanto c’è di costruito e quanto di soltanto “registrato”?
C’è molta costruzione, ad esempio c’è un lungo piano sequenza nella seconda parte in cui avviene un incidente provocato da un cane: da lì il film cambia, lo sfondo diventa figura e l’umano passa sullo sfondo. Tutto ciò è stato precisamente voluto e costruito, seppure con il piccolo budget che avevamo a disposizione. Una costruzione ostinata per un “piano sequenza da cane”, come mi diverto a dire, cioè eseguibile anche da un cane.
Si intuiscono molti riferimenti cinefili, quali sono i registi che l’hanno influenzata di più?
I cineasti più importanti per me sono non-registi che hanno occasionalmente usato il cinema, come i due svizzeri Fischly e Weiss, che raccontano storie di oggetti che si trasmettono il movimento a vicenda cadendo, come in un domino. Poi tra le mie influenze ci sono le arti visive in generale e registi come Bela Tarr, Tsai Ming-Liang, Sharunas Bartas, Ermanno Olmi e Vittorio De Seta, che è un gigante. Lui stesso aveva già filmato la festa dell’albero nel 1959 nel film I dimenticati, con il quale ha dato identità a quella comunità.
Il film riflette sulla religione, qual è il suo rapporto con essa?
Più che religioso, è un pensiero filosofico, che chiede vicinanza tra chi guarda e ciò che viene guardato, per dire che c’è una stoffa comune tra uomo e minerale. Allo stesso modo lo spettatore diventa il film, se ne impossessa. Una delle suggestioni, poi, è il passo di Pitagora, la cui scuola è in Calabria, che dice che bisogna conoscersi quattro volte. Lui insegnava da dietro una tenda, non si vedeva e si sentiva solo la sua voce. Una situazione molto cinematografica che ho usato nel film, dove ogni suono proviene da dietro lo schermo.
Il pastore cerca di curarsi ingerendo la polvere della chiesa. E’ una tradizione calabrese?
E’ una tradizione antica radicata nel sud Italia: originariamente doveva essere la spazzatura del tempio, poi è diventata la spazzatura della chiesa, che si considera la parte essenziale del sacro e detentrice di virtù terapeutiche. Sempre secondo i pitagorici la polvere è il confine del visibile: questa polvere passa prima nel corpo del pastore, che ne è solo un involucro, poi in tutti gli altri, fino a diventare minerale, carbone, per poi ricominciare il ciclo.
Le quattro volte è un film ancestrale ma anche molto moderno.
La Calabria conserva un passato lontano in modo vivo. Ci sono due famiglie di carbonai che scompariranno presto: è un mestiere antichissimo che appartiene al passato. In questo è ancestrale. Il moderno spero sia nel concetto di immagine. Il linguaggio è moderno, per il cinema di questi giorni. Non è necessario filmare New York per filmare la vita. E’ un film pensato con affetto per un pubblico semplice, a cui si lascia spazio e fiducia.
Come vive la partecipazione alla Quinzaine?
Con questa sezione di Cannes c’è stato un lungo percorso, perché avevano già apprezzato molto Il dono. Mi lusinga che mi abbiano selezionato per un film così piccolo e imperfetto. I festival sono il luogo ideale per queste pellicole, si prendono la responsabilità di permettere ad altri linguaggi di esistere.
Ha nuovi progetti in cantiere?
Sto lavorando a un progetto di animazione con VivoFilm. E’ la storia di un bambino in una casa, ambientata tra il ’78 e l’81, quando la gente si chiudeva nel privato. La tecnica è un 3D rivestito di acquerello, per cui ci stiamo affidando a un giovane disegnatore, Antonio Cammarano, che è uno strano miscuglio artistico: è un madonnaro bravissimo col 3D.
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