“Ci sono persone che lottano con i loro corpi e le loro anime in Palestina, ma senza le donne come le due protagoniste del film, queste persone non sono molto”.
È Sergio Castellitto, presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, a leggere la dichiarazione del regista Michel Khleifi dal programma di ‘Diaspora degli Artisti in Guerra’, l’evento in corso dal 19 al 21 giugno nella scuola di cinema più antica del mondo. Il modo migliore per introdurre la proiezione di La Mémoire fertil (Palestina/Belgio, 1980), con le parole dell’autore stesso: “volevo mostrare che, nonostante la forza e la tecnologia, c’è questa fertilità della memoria e della resistenza delle persone che migliaia di bombe non possono uccidere”.
Come per tutti gli eventi della prima giornata, anche a vedere La Mémoire fertil sono accorse oltre 500 persone, tantissimi giovani e studenti di cinema che dal mattino hanno affollato le tre sale del CSC (Aula Magna, Sala Cinema, Teatro Blasetti), magari restando in piedi, pur di vedere e parlare di film libanesi, francesi, ucraini e siriani che affrontano storie ambientate in aree del mondo tormentate da conflitti interminabili (il programma completo dell’evento è disponibile qui).
Né documentario né finzione, nel 1980 il film di Khleifi è stato il suo primo lungometraggio e il primo girato da un regista palestinese all’interno delle frontiere israeliane dal 1967. La telecamera segue per 107 minuti la vita quotidiana di due donne palestinesi molto diverse: Farah, una vedova che vive coi suoi figli e nipoti, e Sarah, una scrittrice della Cisgiordania, le cui visioni totalmente differenti della vita giocano un ruolo importante nel sottolineare la loro comune condizione di palestinesi sotto il dominio israeliano, oltre che di donne in una società patriarcale. Eppure, nonostante questi contrasti, la madre e l’intellettuale condividono la stessa lotta per la libertà e la dignità.
Subito dopo la proiezione il regista, considerato il fondatore del cinema palestinese contemporaneo e una delle sue voci più originali, ha risposto alle domande del pubblico.
“Come tutti i bambini del mondo, anche io, nato a Nazareth nel 1950, vedevo i film con Ercole, con Maciste, tutti uomini muscolosi. Io non ero un bambino molto robusto, perciò cercavo di immedesimarmi ma ero poco credibile: la prima lezione che ho imparato, quindi, è che non bisogna mai fare del cinema imitando, scimmiottando altro cinema. Anche per questo ad esempio io amo particolarmente il nome di questo “centro sperimentale”, che trovo geniale, mentre “scuola di cinema” mi pare pessimo. Diciamo che in un certo senso mi sento anch’io un “centro sperimentale””.
“Questo film è stato girato e montato nel 1980, io stesso mi sono formato negli anni ’70 nella Scuola di Cinema Arti e Teatro di Brussels, e come sapete gli anni ’70 arrivavano dopo le rivolte giovanili del ’68 in Europa e negli Stati Uniti. Fu allora che la gioventù prese coscienza a pieno della propria forza. Perciò è un film politico e militante. Ed è anche la mia ricerca personale per cercare di trascendere, andare oltre al cinema militante, per farlo diventare qualcos’altro, mantenendo gli elementi della lotta politica, dell’intimità e del conflitto. Volevo capire come il cinema ci potesse aiutare a costruire un futuro migliore, individualmente e collettivamente, e anche a costruire una riflessione teorica intorno a questo. È stata la prima volta che è stato girato un film in Palestina. Inizialmente credevo di fare un film ‘sulla’ Palestina e ‘sulla’ condizione della donna, ma poi mi sono reso conto di aver fatto un film ‘per’ le donne, ‘per’ la Palestina. Credo che nell’arte si sempre essenziale partire da una posizione di umiltà: bisogna considerare l’altro, la terra, la natura, ma bisogna lavorare insieme per un bene comune”.
“La differenza da allora è che oggi esiste un cinema palestinese, con bravissimi registi, molti giovani e donne. Invece io, per 15 anni, dopo aver concluso il film, sono stato l’unico a continuare a farne sulla Palestina. Ad esempio quando giro una scena in cui i ragazzi improvvisano musica da una piccola poesia, mi interessava dimostrare che si potesse avere un afflato creativo anche con pochi mezzi, senza le tecnologie disponibili oggi: semplicemente partecipando col proprio corpo, con le proprie emozioni, a reinventare una cultura, partendo da zero. Allora fui accusato di non aver mostrato la lotta armata né la crudeltà degli israeliani. Ma anche Gilles Deleuze diceva che non si può arginare la violenza di un fiume se non incanalandola, costruendo dei nuovi canali”.
“Quel che di più mi interessa raccontare, nei miei film, è l’esperienza umana dei palestinesi, quindi queste memorie sull’occupazione. La memoria è uno sguardo sul passato che si rivolge al futuro, ma non sono semplicemente i ricordi: citando ancora Deleuze, che si chiede come si faccia a costruire la propria identità, è possibile farlo attraverso una serie di carte che rappresentano archetipi come la paura, la gioia, l’amore e il dolore: sovrapponendo queste carte, ne risulta la complessità dell’individuo, dell’essere umano in generale. Quindi dalla dinamica tra la terra, il conflitto e l’intimità, nasce l’afflato creativo. Dalla storia con la S maiuscola dell’occupazione in sé, ma anche dalle storie personali, intime. All’inizio dovevano esserci quattro donne: oltre a Farah e Sarah, anche una ‘zitella’ – come ancora si usava chiamarle in quegli anni – e una prostituta. Poi però ho capito che in fondo già le due protagoniste che avete visto in realtà già rappresentavano anche le problematiche delle altre due. E ho anche pensato che in fondo la terra palestinese è un po’come il teatro di una tragedia, quindi tornando alle vecchie tragedie greche, anche la terra è diventata un personaggio che dava forza alla femminilità”.
“Io spero moltissimo nelle donne, secondo me rappresentano il futuro degli uomini. Io non so perché l’essere umano in generale faccia la guerra, ma secondo me questo non è solo limitato al conflitto israelo-palestinese. Quello che io ci vedo è la continuità del colonialismo iniziato nel XIX secolo. E come in tutte le storie del colonialismo, finiremo col convivere, è sempre stato così. Io ho fatto anche un film (Matrimoni misti in terra santa, 1996) sulle tantissime coppie miste che ci sono da noi, ci credo profondamente nella convivenza tra i due popoli. Il problema però è che la guerra uccide il tempo: tra un secolo o due cosa dirà l’umanità guardandosi indietro? Si sono uccisi tutti, per il petrolio, i petrodollari? Qualcuno mi ha chiesto perché non faccio commedie, essendo io una persona sorridente, gioiosa. È vero, lo sono, ma quando penso al mondo vedo una situazione catastrofica, rifletto anche sulla nostra violenza verso la natura, ai miliardi che vengono dilapidati e potrebbero essere usati per salvare il pianeta… Insomma, gli israeliani e i palestinesi vengono consumati, come fossero anche loro dei petrodollari, delle merci. E quindi mi chiedo quale mondo vogliamo domani”.
“A me piace moltissimo varcare il confine tra realtà e finzione. Quando mi chiedono ‘come si scrive una sceneggiatura’ io rispondo ‘basta guardarsi intorno!’ Non bisogna aver paura di guardare il mondo per quel che è: se vogliamo riprendere un albero, bisogna riuscire a comunicare con quell’albero, con il soggetto filmato. Dovete arrivare ad essere solo voi, lui e la telecamera: è solo in quel preciso momento che avrete varcato il confine tra realtà e finzione. E bisogna liberare la visione cinematografica che si ha in testa: ad esempio quando ho fatto questo film, all’inizio avevo un cameraman molto bravo, ma poi mi sono reso conto che non mi serviva la perfezione. Anzi, essendo la mia opera prima, quel che mi occorreva erano proprio ‘i primi tentennamenti di un neonato’, quindi ne ho cercato uno più giovane e inesperto”.
“Io sono profondamente legato alla cultura popolare palestinese ed alla musica popolare tradizionale, trovo che contengano moltissima saggezza e anche molta poesia, come tutte le culture popolari del mondo. E devo dire che questa è una cosa che ho imparato anche dal cinema italiano, dove nei vecchi film si mette molto l’accento sulle cose che stanno per scomparire… E anche il mio stesso progetto cinematografico, da sempre, è rivolto ad arginare questo oblio. Ad esempio se volete vedere com’era Gaza un tempo, dovete vedere il mio Il racconto dei tre diamanti (1995)”.
“Sono un soggetto che continua a cercare. Il cinema anzitutto ci deve aiutare a non perdere la bussola, a mantenere il contatto con la realtà del mondo e a uscire dalla repressione. Io sono sempre dalla parte degli oppressi, dalla parte dell’amore, e degli emarginati dalla società, come di fatto sono anche le ‘eroine’ del mio film, in quanto vedova una e divorziata l’altra. In questo momento sto cercando di entrare col mio sguardo in una realtà che non capisco, ma se volete il mio parere, io credo che quel che sta accadendo a Gaza è solo l’inizio, accadrà di molto peggio, sarà terribile, e sarà anche molto rapido. Questo mi fa molta paura, e bisognerebbe anche pensare a cosa fare delle migliaia di immagini che oggi ci sommergono”.
“Sostenete il popolo palestinese e il popolo di Gaza”, ha aggiunto commosso il regista in chiusura. “Abbiamo bisogno di voi, perché non siamo dei terroristi come dicono, siamo persone allegre che amano la vita. Dal 1905 c’è il rifiuto di riconoscere i nostri diritti e il nostro desiderio di vivere insieme, vicini gli uni agli altri, perché un certo pensiero sionista ha imposto che lì debba esserci solo una terra, una lingua e uno stato ebraico. Io credo che sia importante lottare contro questa visione delle cose, per salvare non solo il popolo palestinese ma anche il popolo israeliano da questo tipo di sionismo”.
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