Matteo Garrone: “Pinocchio nel paradiso della tv”


CANNES – “Dopo Gomorra volevo fare un film ancora più forte e sorprendente, ma quando ho capito che stavo andando incontro alla catastrofe, ho optato per una piccola storia realmente accaduta che ho creduto potesse diventare un racconto semplice, senza pretese, ma anche metafora di qualcos’altro. Senza nessun intento di denuncia, però. Una storia che potesse ricollegarsi al glorioso cinema italiano pur mantenendo la mia identità di sguardo. Così ho superato la mia ansia di prestazione”. Matteo Garrone, unico italiano alla prova del concorso di Cannes – e con un preside severo come Nanni Moretti a giudicarlo – sceglie la strada dell’umiltà quasi francescana. Come francescano, a un certo punto, diventa il personaggio di Luciano, il pescivendolo protagonista di Reality, che si spoglia delle sue cose e regala ai poveri (o ai furbi) elettrodomestici e poltroncine pur di piacere ai selezionatori del Grande Fratello. Spinto dalla famiglia a fare il provino, entrare nella “casa” diventa via via la sua ossessione, l’illusione di un’altra esistenza, fino a precipitare nella psicosi.

 

“Sono timido, nella vita”, dice il regista romano, classe 1968, che quattro anni fa, proprio con Gomorra, vinse a Cannes il Gran Premio della Giuria. Ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno dalle dichiarazioni ufficiali, perché Reality, prodotto da Fandango con Rai Cinema, nelle sale dal 28 settembre, è un film ambizioso. Che mescola la critica spietata della società dell’immagine alla satira della televisione come nuova fede blasfema con i continui rimandi alla Chiesa cattolica e a certi rituali. Tutti temi di cui parlano più volentieri i fedeli sceneggiatori di Garrone, Braucci, Gaudioso e Ugo Chiti. Del resto non è il “confessionale” il luogo simbolo della casa del Grande Fratello? Angosciosa discesa agli inferi tra sogno e realtà, Reality è una favola allucinata che condivide moltissimo con gli altri film di Garrone. E in particolare con la scarnificazione delirante di Primo amore. Al Festival è stato accolto con applausi e con molte domande dai giornalisti stranieri, colpiti soprattutto, un po’ sbrigativamente, dagli aspetti felliniani della messinscena.

 

E’ vero che “Reality” nasce come una commedia?

Sì, ma poi via via ha assunto risvolti drammatici. L’intento era quello di raccontare una favola moderna, un viaggio agli inferi di un personaggio che ricorda per certi versi Pinocchio.

Per me è un incrocio tra Pinocchio e Pulcinella, De Niro e Totò, con sprazzi di Eduardo.

 

Molta della verità di un film sempre in bilico tra sogno e realtà si deve al protagonista, Aniello Arena, un attore carcerato come lo sono i protagonisti di “Cesare deve morire” dei Taviani.

E’ vero, Aniello viene dalla Compagnia della Fortezza di Volterra, è in carcere da molti anni e sta ancora scontando una pena, ma recita da oltre 12 anni ed è spesso protagonista degli spettacoli di Armando Punzo. Io l’ho visto a teatro, dove andavo spesso con mio padre, che faceva il critico, e lo volevo già in Gomorra, ma il magistrato non mi diede il permesso. Questo è il suo primo film, Aniello porta al personaggio di Luciano un candore, un’innocenza dettata dal fatto che ha scoperto un mondo che non conosceva. Ed era un ruolo complicatissimo.

Cosa l’ha affascinata nel mondo del Grande Fratello?

E’ una sorta di paradiso in terra, un luogo dove arrivare per cambiare il proprio destino. Mi interessava l’aspetto illusorio che porta con sé, invece non sono particolarmente interessato ai programmi televisivi in generale.

 

Il film ha molto evidenti echi felliniani, da “Lo sceicco bianco” a “Ginger e Fred”, specialmente nella scena del provino a Cinecittà.

Il legame con Lo sceicco bianco me l’ha fatto notare il musicista, Alexandre Desplat, è inconsapevole, ma c’è. Con Ginger e Fred ha un’unica somiglianza, il fatto che tratta il tema della televisione.

 

La televisione è specchio di un paese, l’Italia, che sembra vivere un deficit di civiltà. E lei non è certo il primo a dirlo.

Il film però non vuole avere una dimensione politica e non vuole fare polemica contro la televisione, è piuttosto un viaggio nella perdita di identità del protagonista, un viaggio verso la follia. Non è giusto generalizzare e fare di Luciano la chiave interpretativa di un intero paese.

 

Perché ha scelto Napoli?

E’ una città che conserva luoghi decadenti e antichi, come la casa del ‘700 dove vive la famiglia di Luciano, che si contrappongono a non luoghi come il centro commerciale o l’acquapark. E anche nella scelta degli attori c’è questo costante confronto tra volti antichi e moderni.

Ci sono analogie tra la cieca fede nella fama televisiva come fonte di salvezza e redenzione e la religione come viene continuamente evocata nel film?

E’ vero, ci sono delle simbologie in questo viaggio che lui fa a Roma, nella sua apparente redenzione, quando sembra ritrovare serenità con l’incontro in parrocchia. Il personaggio di Michele, interpretato da Nando Paone, il socio di Luciano nella pescheria, è cattolico e crede nella possibilità di raggiungere il paradiso attraverso le buone azioni, mentre Luciano crede nel Grande Fratello e si comporta bene perché pensa di essere spiato. Ma se mi chiedete se oggi la televisione serva a rimpiazzare la religione non so rispondere.

 

Se l’inizio del film è folgorante, con quel cocchio di Cenerentola che corre sulla strada inquadrato dall’alto, il finale sembra più sofferto e oscuro, per certi versi anche ambiguo, con quella risata inquietante di Luciano.  

E’ stato un finale molto travagliato. Ne abbiamo scritti diversi, uno molto drammatico in cui Luciano aveva una colluttazione con le guardie ed entrava nella casa in fin di vita… Ma girando tutto in sequenza, come faccio sempre, siamo arrivati a una conclusione che ci sembrava naturale. La risata folle è estremamente drammatica e tuttavia riporta all’idea iniziale in maniera metafisica.

18 Maggio 2012

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