TRENTO – 3 luglio 2022. L’orologio scandisce le 13.51 mentre la Marmolada – da Punta Penia al Fedaia – crolla, “mangiandosi” 11 esseri umani: la Madre (Natura) s’è fatta Matrigna.
Sono trascorsi quasi 24 mesi eppure con Marmolada 03.07.22, documentario di Giorgia Lorenzato e Manuel Zarpellon, si è lì, ora come allora, con quelli che c’erano, per quelli che non ci sono più.
Il racconto dei soccorritori è, infatti, il cuore del ricordo che dà l’architettura al film, tra una cronaca dalle tinte coraggiose e malinconiche, in cui paura e pragmatismo vibrano ancora vivissimi e all’unisono, e dove la voce portante della prima linea – quella dei soccorritori, appunto – prende per mano quella dei testimoni oculari e dei sopravvissuti, con la scelta – voluta – di non includere le parole dei familiari delle vittime, assenti per schivare ogni possibile agguato di pietismo, seppur il loro dolore emerga tonante dal coro degli altri umani che quel giorno erano lì.
Giorgia, qual è l’importanza di lasciare testimonianza cinematografica di un evento drammatico come quello che raccontate e qual è stato l’interruttore emotivo che vi ha mossi a questo racconto?
Giorgia Lorenzato (GL): La spinta al racconto è stata dettata dal conoscere una persona che è stata coinvolta, una delle vittime, l’alpinista Paolo Dani, conosciuto per un nostro precedente lavoro. Noi abbiamo vissuto la tragedia della Marmolada sotto due punti di vista: quello di chi è a casa in attesa di sapere la sorte di chi è lì, e poi il punto di vista cinematografico, per raccontare una tragedia dall’esperienza dei soccorritori, per rendere omaggio a una persona che era parte del Soccorso Alpino e che ci ha trasmesso la grande voglia di aiutare gli altri; il fulcro di Marmolada 03.07.22, è un po’ raccontare come la comunità si unisca in momenti così drammatici.
Qual è, secondo la vostra concezione cinematografica, il valore della memoria, del ricordo da tramandare, quindi anche del materiale d’archivio?
Manuel Zarpellon (MZ): Stiamo parlando di una tragedia legata ai fenomeni del cambiamento climatico, a cui stiamo assistendo, e a cui ci stiamo assuefacendo: noi abbiamo deciso di far vedere un pezzo di montagna che si credeva eterno e che non c’è più, quindi l’archivio l’abbiamo usato per documentare la ricerca, di quel poco che si potesse cercare in Marmolada, ma soprattutto il cambiamento morfologico: c’era gente che frequentava il luogo tutti giorni, conoscendolo a menadito, che in quel momento andava in confusione senza aver più dei punti di riferimento. Vogliamo che quella cicatrice sulla Marmolada ci dica che non tutto è eterno e può cambiare all’improvviso.
C’è stata una scrittura/sceneggiatura del doc, oppure vi siete prima approcciati al racconto delle persone, e poi la scrittura vera e propria è stata fatta in fase di montaggio?
GL: Tutto è stato molto studiato e calibrato, non c’è stata una scrittura vera e propria, ma prima abbiamo conosciuto le persone e ascoltato i loro racconti, cercando il più possibile di entrare in confidenza, perché dovevano entrare anche in una parte molto personale. Ci sono state interviste in cui fermarci per l’alto coinvolgimento di noi stessi. Una volta scelte le 38 persone da intervistare, a quel punto abbiamo lavorato di fino, e poi una parte importante è stata la post-produzione, una ciliegina su una torta ben costruita dalla base.
Nel doc c’è del materiale di repertorio inedito: qual è esattamente e che valore aggiunto vi ha permesso di dare al film?
MZ: Noi abbiamo avuto accesso al materiale girato sulla Marmolada, da professionisti e non, nei giorni della tragedia, quindi abbiamo usato tutto quel materiale inedito, depurato dalle scene di macabro: era stato visto solo dalla Procura per gli accertamenti del caso. Non è stato semplice averlo, perché solo man mano siamo riusciti a far capire che il nostro obiettivo non fosse ricorrere alla pornografia del dolore, senza cercare lo scoop: da lì, sia privati che istituzioni, si sono dimostrati disponibili e c’era in effetti parecchio materiale. La cosa più straziante del materiale è quando i soccorritori sono convinti di aver trovato delle persone: si vedono nitidamente le cordate degli alpinisti, che scavano come dei pazzi, credendo i corpi siano lì sotto, non sapendo che fossero a valle di 500/600mt. Ci sono queste immagini con i demolitori che cercano di rompere il ghiaccio e vedi gli occhi di queste persone che veramente hanno continuato nonostante sapessero non ci fosse più nulla da fare.
Il tono del film è asciutto quanto palpitante, può sembrare un ossimoro e non era semplice trovare questo saggio equilibrio: qual è il confine che non si deve travalicare quando si racconta il dolore?
GL: Per noi il confine è stato ben chiaro fin dall’inizio: non volevamo urtare la sensibilità né delle famiglie né di chi conosceva le persone che lì hanno perso la vita, né tanto meno dei soccorritori. Per noi è stato fondamentale non esagerare e tenere nelle interviste un tono che raccontasse nel profondo cosa intimamente nasce dopo una tragedia del genere, come nella frase che identifica un po’ il doc, detta da un soccorritore: ‘tutto questo noi ce lo portiamo a casa’. Ecco, forse uno degli aspetti che ci ha colpiti di più è pensare alle famiglie a casa che li aspettavano, un aspetto che si tende a sottovalutare, che noi abbiamo voluto portare alla luce: sarebbe stato semplicissimo esibire il macabro e il dolore.
E con questo spirito, avete quindi anche ‘censurato’ qualcosa dalle interviste, non l’avete montato, per rispettare il vostro primo intento?
GL: No. Tutte le persone coinvolte erano loro stesse a mantenere un clima di profondo rispetto. Una comunità di montagna che fa un cordone di sicurezza intorno ai famigliari, bellissimo.
MZ: Infatti a due anni di distanza ci sono legami tra soccorritori e famigliari, sono diventati amici, si frequentano. Loro, spesso, nel raccontare hanno la concezione del ‘potevo esserci io, lì’, quindi questo legame che s’è creato ci ha fatti molto contenere.
La realizzazione di questo film, i racconti di chi mettete in scena, vi ha suscitato una differente riflessione sulla morte, di conseguenza sul valore della vita?
GL: E’ una domanda enorme. Una cosa che ci ha colpiti è stata una frase, di un soccorritore, anche parroco di Canazei: ‘noi, a un certo punto, abbiamo dato la possibilità alle famiglie di fare un sorvolo sulla Marmolada, perché lì è il luogo dove riposeranno per sempre’; la vita assume un valore attraverso quello che noi facciamo, come lo facciamo, e dove andiamo e loro stavano andando in alto…
MZ: La riflessione io l’ho fatta per la prima volta quando siamo stati con Giorgia a fare le riprese con il drone sull’orlo del ghiacciaio, di quello che ne è rimasto, a oltre 3000 mt di quota: lì eravamo tutti in cordata e ci siamo trovati di fronte alla bellezza e al pericolo, e abbiamo capito cosa significhi considerare la montagna come luogo di libertà, in cui però uno può trovare anche la morte; può sembrare un paradosso, ma se quello che vedi ti riempie di vita forse vale la pena viverlo fino in fondo, e purtroppo accettare – come nel caso di queste persone – che se succede a persone pignole come Paolo Dani possa succedere a chiunque; da quel momento cominci a guardare le cose con un’ottica completamente differente.
Il doc, prodotto da Cineblend s.r.l., aderisce al Manifesto del Verona Green Movie Land, progetto dedicato al cinema, alla cultura e alla sostenibilità che, con il potere della Settima Arte, sta costruendo una trasmissione di valori di solidarietà e green, restituendo alla cultura la capacità di costruzione di un Uomo nuovo.
Le ultime due proiezioni del doc a Trento sono stasera, 3 maggio, ore 21.15, e domenica 5 ore 11.
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