“Sento un senso di apertura rispetto al tempo che vivo, eppure, quando avevo 16 anni come ora che ne ho 60, vedo il tempo che cambia. Bisogna pensare all’esperienza artistica come qualcosa in movimento”. Al Teatro Astra, si è tenuto l’incontro “Il teatro nel cinema di Mario Martone”, all’interno del programma del 41° Torino Film Festival. Il popolare regista, arrivato direttamente da Parigi dove ha potuto ammirare una versione – a suo dire entusiasmante – di Einstein on the beach, spettacolo di Philipe Glass riproposto 50 anni dopo da Susanne Kennedy, ha potuto ripercorrere la sua carriera, sottolineando il legame indissolubile tra il teatro e il cinema.
Ovviamente bisogna partire dalla Napoli degli anni 70: “erano anni di contaminazione tra i linguaggi, andavo a vedere alla cineteca quello che allora era il nuovo cinema americano e tedesco, Fassbinder, Herzog, Scorsese, Coppola, tutto nasceva in quel momento. Amavo quella possibilità di libertà che la mia città mi dava. Io amavo il cinema, quando ho iniziato a fare i primi esperimenti erano già esperimenti che fondevano cinema e teatro. Ormai è tutto caduto in prescrizione, quindi confesso dopo tanti anni che noleggiavo dei film in super 8 e tagliavo dei pezzi li rincollavo con la moviola e li usavo negli spettacoli che facevo. Non avendo a disposizione nulla, facevo con quello che avevo che è esattamente come faccio ora, anche quando faccio una regia alla Scala”.
“Tutto nasce dalla voglia di chiudere con questo teatro contaminato – continua Martone, facendo riferimento a un periodo in cui lavorava a stretto contatto con artisti come Toni Servillo – all’inizio era tutto caotico e mescolato e piano piano i fili hanno cominciato a separarsi. Il mio primo film, Morte di un matematico napoletano, l’ho pensato in forma di film. Nello stesso periodo ho realizzato lo spettacolo Rasoi, il primo lavoro asciutto, senza proiezioni: solo spazio, parola e corpo degli attori. È stato come se teatro e cinema si fossero separati e ora qui fili vanno da soli e a volte si intrecciano”.
Quello di Martone è sempre stato un teatro, come un cinema, d’avanguardia e di rottura, in linea con i tempi e con il contesto in cui viveva: “È chiaro che esistono un teatro tradizionale e uno di ricerca, accade in tutte le arti. C’è un modo di lavorare in cui ci si pone delle domande, sulla funzione dell’arte, sul suo rapporto con la realtà. Quando era ragazzo ero più manicheo: l’avanguardia era quella dove si rifletteva sui linguaggi e sui codici. Ora capisco che ci sono modi diversi. Ci sono cose che dopo molti anni si svuotano e perdono la loro forza e delle cose che si esaltano col tempo. L’esperienza fondamentale è quella con lo spettore, vale per il cinema, il teatro, la letteratura. Accade perché cambia lo spettatore, ed è una delle cose più belle che possono accadere nell’esperienza artistica”.
Ma c’è una differenza fondamentale tra teatro e cinema, ed è tutto ancora relegato alla questione temporale. “Il tempo del teatro è anche il tempo delle prove. Non c’è solo la scena, c’è il farsi del teatro. C’è gente che sbadiglia, che dorme: a volte le prove sono noiosissime, faticose. Ma la fatica è un valore. Nel teatro c’è questa fatica totalmente insensata che non esiste nel cinema. Puoi averla mentre scrivi, ma nel momento in cui giri, certo puoi sempre fare un cumulo di cazzate, ma c’è quell’adrenalina, quell’iper-vita del set. Il teatro è una specie di under-vita: sei sotto il palco e vedi le prove, l’attore che non ce la fa, e sprofondi nella tua poltrona. Poi c’è questa idea di arrivare a un debutto con la consapevolezza che lo spettacolo cambierà con le repliche: in genere i lavori buon crescono con tempo, mentre i lavori più zoppicanti più vanno avanti più arrancano”.
Per chiudere l’incontro viene mostrata una clip di Capri Revolution, un film tra i più squisitamente teatrali, anche se meno dichiaratamente rispetto agli altri mostrati in precedenza, come Teatro di guerra, Noi credevamo e Qui rido io. “La coreografa del film è Raffaella Giordano. Poiché era coinvolta la danza, l’espressione scenica era un elemento centrale. In quel caso, con la produzione ci siamo messi d’accordo per fare un lungo laboratorio, con Raffaella, i danzatori e le danzatrici. Sarebbe stato impossibile diversamente. Poi sul set c’è stata molta improvvisazione, anche nel modo in cui abbiamo girato le scene. Tutte le persone sul set facevano parte della stessa danza, era un coinvolgimento collettivo, in cui tutti sono chiamati al senso di quello che stavamo facendo. Non era solo riprendere delle immagini, era condividere un’esperienza”.
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