BARI – Il paese è piccolo e la gente mormora. I modi di dire, si sa, sono verità popolari dalla grandissima sincerità e la provincia, più che mai, ha in sé un groviglio sociale che è terreno fertilissimo per sfamare questo mormorìo che prende, di volta in volta, le sfumature della cronaca rosa nostrana o, più spesso, la superbia del pregiudizio, sussurrato o tuonato dall’alto dal falso perbenismo della borghesia.
Anna (Marianna Fontana), trent’anni, decide di trasferirsi a vivere in una piccola realtà di provincia: la scelta non è di piacere, ma necessaria a cambiare vita, la sua, alla ricerca della ridefinizione di un presente e di un tempo prossimo ma, proprio il suddetto mormorare della gente del posto piccolo, che si fa pesante giudizio sull’animo, le ricorda perennemente il perché di quell’essere andata via, da un passato che il qui e ora della provincia non le permetteno di lasciarsi alle spalle per costruirsi La seconda vita.
Non importa se la Legge abbia emesso un giudizio, perché – quello che conta, in provincia – è il (pre)giudizio delle persone.
Il regista Vito Palmieri (vincitore del Gran Prix del Pubblico di Shanghai con il suo film d’esordio, See you in Texas, del Toronto Film Festival con il suo corto Matilde, già presentato in Berlinale Generation K+, e vincitore del premio MigrArti 2018 con Il Mondiale in Piazza) mette in scena una fanciulla dal passato oscuro, per affrontare i temi della giustizia riparativa e del reintegro sociale.
Marianna, quando ha incontrato Anna per la prima volta, come l’ha affrontata per dare forma al personaggio: cioè, il suo punto di vista è partito dall’esperienza del carcere, dalle insidie della provincia, dall’idea di futuro?
L’ho guardata senza giudizio; approcciarmi a lei è stato un percorso graduale: lei stessa ha un percorso di vita molto complicato, ha un dolore interno molto, molto profondo, che forse non si risanerà mai. Mi sono preparata leggendo un po’ di libri e guardando un po’ di film, come The Unforgivable con Sandra Bullock o anche Orange is The New Black, ma anche Room, per capire la tematica della chiusura, per capire come il personaggio abbia vissuto in silenzio. Il regista mi ha aiutata tanto perché conosceva molto bene il percorso della riparazione, del carcere, quindi piano piano abbiamo lavorato sul personaggio.
Palmieri come le aveva presentato Anna? Chi doveva essere per lui, e chi è diventata nelle sue mani, con la sua interpretazione, in questa sorta di passaggio di consegne?
Vito, quando mi ha parlato di Anna, mi ha parlato di una ‘bambina’: perché lei è un po’ così quando esce dal carcere, non sa come approcciarsi alla vita, non sa come confrontarsi, tanto che la timida relazione che nasce con Antonio è molto impacciata, proprio come succede di essere ai bambini. Lui mi ha chiesto di fare un lavoro interno, fatto di silenzi, questa è stata la costruzione.
Anna sembra stare tra le sbarre più durante la libertà conquistata che non dietro a quelle del carcere: è stata un’immagine a cui ha pensato, su cui ha lavorato per lo stato d’animo?
Sì, e in questo concorre anche la postura, col suo essere sempre chiusa, proprio a livello espressivo: è come se lei non avesse emozioni, è come se fosse consumata; il dolore le ha tolto quasi tutte le emozioni umane ed è come se conoscesse solo un colore emotivo. Sempre in maniera molto timida riesce a approcciarsi al mondo esterno, provando qualcosa di diverso. Sicuramente la chiusura e la solitudine mi hanno aiutata tanto in questo processo.
È stata anche in carcere per preparare il personaggio? E, personalmente, quanto conosce la vita sociale e certo guasto umano propri della provincia?
Non sono stata in carcere, ma grazie alla produzione ho potuto avere un bellissimo incontro con una criminologa. La provincia è come se fosse una casa, qualcosa di non dispersivo, in cui si conoscono tutti: io vengo dalla provincia e questo mi ha aiutata molto per l’approccio, mi è molto servito per la chiusura, perché lei vive in una stanza, tanto che poi il paesino le sembra essere il mondo, per cui diventa tutto un po’ relativo. Come per me, quando sono arrivata a Roma e la città era dispersiva e immensa, così è per Anna il passaggio dalla piccola stanza al paesino.
Il suo personaggio si misura con il giudizio degli altri, è costretta a esserne vittima: per lei, Marianna, quanto conta il parere esterno e lo reputa tossico?
Facendo il mio mestiere si è sempre sotto giudizio, per cui c’è sempre una sorta di accettazione; t’imponi – genericamente, s’intende – facendoti anche accettare: io non mi fossilizzo sul giudizio, lo vivo molto serenamente, anzi se è costruttivo mi fa piacere ascoltarlo ma non sono molto influenzata, cerco di fare sempre quello che sento, in base alle mie sensazioni, ecco perché lo vivo serenamente. In particolare, non ho ricevuto giudizi che mi abbiano colpita, fino a ora: sono giovane e per me si tratta sempre di un modo per confrontarsi.
Per lei attrice, c’è qualcosa che reputa essere gabbia nel cinema, nel sistema di lavoro? C’è qualcosa che costringe o incanala troppo la libertà artistica?
Da un po’ di tempo a questa parte, nel cinema italiano, anche per i ruoli femminili c’è una sorta di libertà nel raccontare storie: questo stesso film mi ha colpita per la libertà di narrare una storia non facile, anche da accettare. La mia è una generazione che vuole vedere le cose belle, cerca di lottare per i diritti, quindi vivo il tutto molto serenamente: devo dire che per adesso non mi sono posta la questione, forse perché non la sento ancora pressante, credo piuttosto che stiamo andando in una direzione più libera nel modo di guardare le tematiche affrontate dal cinema, mi piacciono molto i ruoli che ultimamente sto vedendo.
La seconda vita è prodotto da Articolture in collaborazione con Rai Cinema: l’uscita nelle sale italiane è giovedì 4 aprile, distribuito da Articolture e Lo Scrittoio, con un calendario di proiezioni speciali nelle carceri: il film è stato realizzato con il coinvolgimento della Casa Circondariale Dozza – Rocco d’Amato di Bologna e della Casa di Reclusione di Volterra, permettendo la collaborazione con persone in stato detentivo e con mediatori penali, per promuovere la giustizia riparativa come visione alternativa e complementare a sostenere una vera ed efficace inclusione sociale.
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