“Come Berlusconi e Garibaldi, Mussolini è una star che suscita interesse”. Marco Bellocchio introduce il suo nuovo film con una battuta. Prodotto da Rai Cinema, si chiamerà Vincere e ricostruirà la storia tragica di Benito Albino Mussolini, il figlio che il Duce ebbe con l’estetista Ida Dalser e fece internare a Milano dove morì nel 1942. Il cineasta ne parla a Locarno che lo ha invitato, dopo la retrospettiva del 1998, a presentare I pugni in tasca nella sezione Retour à Locarno, dedicata ai grandi film della storia del festival. Vincere, più costoso del Regista di matrimoni, sarà girato a inizio 2008. Tra le città possibili per le riprese il cineasta cita Trento e Torino.
Da dove nasce l’interesse per il figlio segreto del Duce?
Dalla lettura di alcuni libri, tra cui La vera storia di Ida Dalser. La moglie di Benito Mussolini di Marco Zeni e dalla visione del documentario Il Segreto di Mussolini, trasmesso da Rai3. E’ una vicenda poco nota che mi ha emozionato moltissimo. La storia d’amore tra il Duce e Ida Dalser risale al 1914, poi Mussolini diventò interventista, si arruolò e sposò Rachele. Dal 1919 Ida Dalser non lo vedrà più se non al cinema, sui filmati del Luce. Quando andò al potere, nel 1925, Mussolini la fece rinchiudere. Lei scappò. Non smise mai di creare problemi. Non accettava di vivere nell’ombra. Sosteneva di essere la moglie, cosa non provata ma neppure confutata. Hitler forse l’avrebbe fatta uccidere in 24 ore. Il titolo allude alla vittoria di questa donna che non si arrese mai ed è anche un’irrisione del celebre slogan fascista. Albino venne mandato in collegio a Moncalieri poi persino in Cina, infine in manicomio.
Chi interpreterà Ida e suo figlio?
Non lo so ancora. Servirà una grande attrice. L’ideale sarebbe stata Anna Magnani o Irene Papas, durissime e sensuali. Cerco anche un attore giovane, che somigli a Mussolini e possibilmente con cadenza romagnola o in grado di farla. Qualcuno in grado di interpretare il Duce da giovane e forse anche suo figlio che dovrebbe comparire in una breve scena. Sembra che Albino facesse il verso al padre di fronte ai compagni di scuola. Un’altra sfida sarà trovare o ricostruire l’Ialia dell’epoca che non esiste più.
Anche Marco Tullio Giordana sta facendo un film ambientato nel ventennio.
Non mi sono posto il problema. Sono partito dalla fascinazione per una storia. Sono nato quando il fascismo era finito ma la figura di Mussolini è ancora attraente sul piano della rappresentazione.
Come commenta la morte di Bergman e Antonioni?
Bergman ha messo insieme un gruppo di attori straordinario. Qualcosa da cui noi, italiani, che spesso tendiamo alla dissipazione, dovremmo imparare. Dietro la freddezza apparente dei lavori di Antonioni c’erano dei capolavori. Quando ho cominciato a fare cinema, si guardava più alla Francia, soprattutto a Godard e Rossellini ma anche Antonioni era un autore importante. Nel 1959 “Paese Sera” criticò L’avventura, i francesi gridarono al capolavoro. Fu lo stesso Antonioni a dirmi che doveva appoggiarsi alla Francia, in Italia faceva fatica.
Sophia Loren ha detto che preferisce Muccino a Moretti. Lei che cosa pensa?
Che si tratta di 40enni e 50enni. Dovremmo parlare dei ventenni. So che i selezionatori di Venezia hanno ricevuto quaranta film di registi giovanissimi, la maggior parte fatti in casa. Questo è il nuovo che contagia anche le altre generazioni. Forse, tra parecchie cose sciocche ci sarà il capolavoro. Anche qui a Locarno, il numero del materiale video supera di gran lunga quello in pellicola. Provocatoriamente si potrebbe dire che oggi, come nel ’45 quando non c’erano risorse, vincono le idee.
Nel 1965 la radicalità de I pugni in tasca fece scandalo. Come reagì la critica dell’epoca?
Ricordo un’epressione di Grazzini che parlò di “barbara forza”. C’era stupore, Rondi lo attaccò duramente, Lino Miccichè lo apprezzò molto. Al Festival di Mosca fu proibito al pubblico perché, mi riferirono, gli esaminatori lo definirono patologico e l’Unione Sovietica credeva nell’uomo nuovo. Ancora mi colpisce il grande coinvolgimento emotivo dei ventenni che lo vedono oggi. L’ora di religione, storia di un uomo che guarda con disperazione al fratello chiuso in manicomio per aver ucciso la madre, ne rappresenta l’evoluzione. Nel film del 1965 ci sono due delitti ma nessuna esibizione della violenza. Il contesto sociologicamente sballato, la scelta di trascurare il realismo, in fondo sottolinea qualcosa di originale. Se avessi fatto un film più corretto sarebbe stato meno interessante.
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