Il giorno 2 della Festa, l’Incontro Ravvicinato numero 2 della manifestazione, con 2 ospiti, i Manetti Bros., Marco e Antonio, coppia di fratelli registi, intervistati da due conduttori d’eccezione, Alberto Crespi e Francesco Zippel, rispetto al consueto padrone di casa di questi momenti, il direttore artistico Monda.
Due anni e mezzo di differenza alla nascita e una vita insieme, una carriera insieme: Marco e Antonio Manetti, sul palco della Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, si raccontano a partire dal principio della loro storia con il cinema e come registi, portando poi la conversazione a conclusione con un regalo per il pubblico, in anteprima assoluta i primi minuti di Diabolik, la loro ultima opera, in sala dal 16 dicembre.
“Io sono il fratello più grande e la cosa strana, ma è la verità, è che mi sono sempre sentito regista”, racconta subito Marco. “Sin da piccolissimo ero appassionato di cinema, ma m’è sembrato sempre ovvio che i film poi li avrei fatti io. In seconda media, a casa, scrissi una commedia gialla che chiesi alla professoressa di mettere in scena, cosa che poi non fu. Poi ho fatto un po’ di gavetta, sono andato a farla come aiuto regista e fuori da Roma e, in contemporanea, accadde che facemmo ciascuno il proprio cortometraggio, e io credo tutto sia cominciato lì. Mentre facevo la gavetta, una volta Antonio scrisse la sceneggiatura di un corto: gli proposi di fare la regia insieme, nasce così il primo episodio di De Generazione”.
“Da sempre, guardavamo moltissimi film, registravamo qualsiasi cosa, abbiamo una collezione infinita: quello che forse abbiamo più in comune, che consideriamo IL Maestro, è Hitchcock, vederlo e leggerlo – in particolare, l’intervista con Truffaut – è proprio un riferimento, in lui trovi le risposte”, continua Antonio, dando così il là ad una conversazione a voci alternate ma unisone.
“In una fase successiva agli Anni ’80 abbiamo avuto anche influenze dal cinema orientale; un piccolo equivoco su di noi è che siamo appassionati di B-Movie: amiamo tutto il cinema, ma il B-Movie non è una nostra passione. Ci ha formato il cinema del sogno americano, da Carpenter in poi, ma sì Hitchcock è IL Maestro: talvolta ci chiediamo ‘come la farebbe’ il Maestro?”, confessa Marco.
Ma – continua il fratello – “Il nostro modo di fare cinema deve molto all’essere in due: questa cosa è successa man mano, con la definizione della divisione del lavoro sul set, da un certo punto in poi. Dal punto di vista stilistico, pensiamo che sempre l’attore sia più importante della luce, per cui il dop deve saperlo per non impazzire, e questo ci dà uno stile”.
“Noi abbiamo un metodo di lavoro un po’ caotico, o meglio siamo metodici e precisi, esigenti con la troupe, ma potremmo apparire caotici dall’esterno: l’unico momento in cui siamo davvero metodici è il set, perché c’è un forte legame con il budget e le tempistiche. Sul set ci siamo dovuti costruire un sistema di lavoro: Antonio è anche operatore, di conseguenza io parlo di più con gli attori, questo ci dà una divisione di compiti ma con voce in capitolo totale dell’uno sull’altro e viceversa. Avere un operatore che è regista è diverso da un operatore e basta: questa cosa ci permette di rendere gli attori molto liberi, perché lui con la camera decide il punto di vista. Spesso, noi due, con la troupe, rivendichiamo di essere il ‘Comitato di liberazione della macchina da presa!‘. Nella Storia del Cinema, il regista è un mestiere del singolo, ma quando si fa in due si è quasi sempre fratelli: è proprio la mancanza di competizione che esiste solo tra fratelli che permette di fare in due una professione da solita”.
“Se ci fosse competizione non si potrebbe fare insieme, il lavoro è sempre fatto in due, totalmente. È vero che la nostra storia di amanti del racconto filmato arriva dalla passione del gioco di fare, ma non che io pensassi di diventare regista. Da parte mia, da fratello più piccolo, avevo un po’ di timore, anzi: il mio primo cortometraggio fu una sorpresa un po’ per tutti, anche per Marco”.
L’Incontro procede poi, come classicamente, con la visione di alcune clip, in questa occasione quattro sequenze da opere dirette dai Manetti, che le commentano.
Il primo estratto da Piano 17 (2005), che “È un film molto importante per noi, è come se fosse l’inizio di quello che siamo oggi, della nostra libertà. Venivamo dalla prima serie di Coliandro e da Zora La Vampira, con un grosso budget e poca libertà; questo film, invece, l’abbiamo fatto con 70mila euro e l’abbiamo fatto mettendo un po’ tutti dei soldi, anche gli attori, con cui abbiamo deciso di investire meno soldi ma più tempo. A fine riprese ho pianto (precisa Marco) perché sapevo che mai più avrei avuto quella libertà: in realtà il pianto è servito a garantire la libertà che ci caratterizza oggi. Non siamo per niente sboroni, non abbiamo mai cercato di fare di più di quel che ci spettava, anzi un po’ meno, per star comodi nei progetti, stabilendo un metodo di lavoro nato con questo film, l’inizio del nostro modo di essere. È anche il primo film in cui siamo stati produttori, cosa che non abbiamo mai smesso, così ci sentiamo liberi in modo naturale e sappiamo che per noi questa libertà è la cosa più importante”.
Prima della seconda sequenza, la chiacchierata non può che far sosta a Bologna, città della serie Coliandro ma non solo. “Bologna è diventata negli anni la nostra città di adozione professionale, non possiamo farne a meno. Abbiamo dei lavoratori bolognesi bravissimi: abbiamo creato lavoratori in città, così Clerville (di Diabolik) – seppur non tutta – è Bologna: lì per noi è casa, è una città particolare, i bolognesi non sono facili da conquistare, cosa che noi siamo riusciti a fare. Noi a Bologna troviamo il piacere di lavorare, oltre al rapporto con la Film Commission e la Cineteca, una gloria mondiale del cinema”.
Da Bologna “alla Cina” con L’arrivo di Wang (2011). “Questi due film (l’altro è Piano 17) sono i nostri che più amiamo. Per questo film stavamo cercando di continuare il cammino cominciato con Piano 17: qui eravamo più stabili professionalmente ma fare cinema doveva essere più di un lavoro; è successo che condividessimo l’ufficio con una società di effetti digitali – con cui tutt’ora collaboriamo – e loro ci proposero di voler produrre un corto, come biglietto da visita aziendale, diretto da noi: Antonio arrivò con un’idea… ma scrivendo non veniva un cortometraggio, così fummo noi a proporre loro di essere produttori, ma di un lungometraggio, che avesse i loro effetti, così che fosse un film nostro e il loro biglietto da visita. L’incontro con il produttore Luciano Martino, poi, è stato molto importante per quello che siamo ora: ci ha dato la forza del coraggio, ‘se non osi non vai da nessuna parte’, ci ha insegnato questo. Lui ci ha creduto e il film venne presentato a Venezia: questo racconta chi fosse Luciano. È stato un momento della carriera e della vita importante. Luciano poi ci ha quasi costretti ad andare a girare a Napoli, la sua città”.
E così arriva la sequenza da Song’e Napule (2013). “Reputiamo questo film il nostro più grande successo, che arriva proprio da questa Festa, un passaggio dalla libertà al successo, mantenendo la prima. L’idea del film è di Giampaolo Morelli e noi siamo entrati per la prima volta in questa città, Napoli, in cui ogni secondo ti ispira e infatti il film dopo, Ammore e malavita, è scritto da noi, che a quel punto la conoscevamo”.
E così, prima del gran finale, le ultime immagine da commentare, quelle di Ammore e malavita (2017), appunto: “Penso ci fosse uno stato di grazia nostro, ma anche dell’incoscienza. Ci siamo innamorati del fermento culturale di Napoli, ed è il primo prodotto della nostra società con Carlo Macchitella: era la visione di Napoli in una dimensione grande e folle, così è nato il musical, frutto di tanto tanto lavoro. Pensammo di voler avere l’equilibrio tra cantato e parlato quanto era quello di Grease: il Musical non ha una grossa storia italiana, e quando è successo le canzoni non portavano avanti la storia, mentre noi ci tenevamo che le parole delle canzoni raccontassero. Noi non sappiamo scrivere canzoni, ma ne avevamo bisogno, così cercavamo brani esistenti che musicalmente stessero bene sulla scena e Nelson, che le ha scritte, metteva in metrica il testo sulle musiche da noi suggerite – poi composte originali da Pivio&DeScalzi -, come accaduto per la musica di Flashdance – What A Feeling, e la follia è stata provare a chiedere quanto volessero per l’uso della canzone: così, è stata ‘la star più pagata del film’, possiamo dire”.
L’Incontro, come atteso, si conclude con i Manetti Bros. visibilmente emozionati e in fermento per la visione dei primi minuti del loro Diabolik: “Il coronamento di qualcosa che amiamo da lettori. In questo momento siamo tesi e emozionati, è la prima volta che qualcosa del film viene mostrato ad un pubblico. Questo film è un film fatto – per la prima volta – con delle aspettative, supportati da Rai Cinema, in particolare da Paolo Del Brocco. Stiamo nei primi minuti e questa visione sarà l’illusione di essere finalmente al 16 dicembre in sala…”, dicono i Bros, chiedendo di poter scendere dal palco e guardare dalla platea, come fossero al cinema.
Le prime sequenze sono un adrenalinico inseguimento in macchina, che comincia dalla Banca Nazionale di Clarville, nella notte: l’iconica Jaguar nera sfreccia guidata da Diabolik, svelato nel primissimo piano degli occhi mascherati di Luca Marinelli, inseguito dalla polizia locale, dall’Ispettore Ginko, Valerio Mastandrea: subito la proposta visiva di un paio di effetti speciali avvincenti, fino al colpo di scena narrativamente esilarante, che determina la domanda di un agente, che chiede cosa sia “quello” (un pezzo di carrozzeria) che si trovano davanti e l’Ispettore risponde con una parola che spalanca la porta su un universo: “Diabolik”.
Un applauso pieno di trasporto parte spontaneo e entusiasta dalla platea della Sala Petrassi: Marco Manetti “gioca” a fare il regista con il suo cellulare dal palco, per imprimere in immagine e audio l’applauso e l’urlo di consenso della sala. I Manetti Bros. confessano di star vivendo un’iniezione di adrenalina: “non ce la facciamo più ad aspettare”, ammettono, aggiungendo “ringraziamo le sorelle Giussani e Gomboli per aver creato il grande personaggio di Diabolik, ed Eva: il loro è un caso quasi unico, di riuscire a ‘far stare’ dalla parte del male”.
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