Lynch, pittura e sigarette

David Lynch, The Art Life – presentato a Venezia Classici - è un documentario (auto)biografico: protagonista e narratore il regista di Velluto Blu, Mulholland Drive, Inland Empire


VENEZIA – David Lynch, il suo profilo seduto a figura intera, una sigaretta accesa tra le dita, nel disordine di un laboratorio creativo all’aperto, tra il suono diegetico delle colline di Hollywood: così nasce sullo schermo il racconto biografico, e autobiografico, del regista americano. Sono tre gli autori – Rick Barnes, Jon Nguyen, Olivia Neergaard-Holm – del documentario, le cui riprese sono iniziate nel 2004, proseguite grazie a un crowfounding del 2012, in cui il pubblico affezionato di Lynch ha dato un contributo alla produzione di 180.000 euro, capace di concorrere alla finalizzazione del progetto. Il flusso si appoggia saldamente sulla narrazione perenne, unica e costante, del protagonista, voce narrante fuori campo: questa modalità, efficace nella struttura estetica complessiva, è l’unico passo un po’ troppo monocorde del racconto, che permette immersione ma, nel frattempo, rischia di appesantire. 

Sono la pittura, il super8 dei filmini di famiglia, l’atto creativo in progress ed estratti di pittura e cinema, a fare da scenografia visiva alle parole, in mezzo a cui s’insinua, nell’innocenza propria dell’età, solo la presenza umana della piccola Lula, ultimogenita di Lynch. La costruzione di The Art Life è cronologica, dall’infanzia a Sandpoint, Adaho, passando per Washington, la Virginia, un’incursione di soli quindici giorni in Europa e, infine, Hollywood: questi sono, per somme tappe, gli spazi in cui la vita di David Lynch ha registrato passaggi fondamentali – con episodi come la donna nuda e barcollante di Shoshoni Avenue, la cui bocca rigettava sangue, o la decostruzione di un insetto, in cui Lynch trova si possano osservare “texture” interessanti, dalle interiora alla ali –, che permettono di mettere a fuoco quelli che, visivamente, sono gli universi che conosciamo del Lynch autore. Il mondo, anzi al plurale “i mondi” – così li definisce lui stesso – sono conseguenza di un’infanzia felice, di un padre integerrimo, di una prima fase del liceo infernale – perché “l’unica cosa importante era quello che succedeva fuori della scuola” – a cui fa seguito un incontro, “fuori”, in uno studio di pittura, quello con Bushnell Keeler, padre del compagno Toby, che dà luogo alla sua “luce” creativa.

Fuma, perennemente, per tutto il film, David Lynch: di pari passo alla voce fuori campo, l’altra costante sono le sigarette, evocate dallo stesso Lynch, essenziale elemento, insieme alla pittura e poco altro, per vivere, secondo lui. L’arte di David Lynch, la cui gratitudine per Keeler è manifesta, si comprende essere, anche, figlia dell’“odore di urina e del razzismo” di Philadelphia, dove frequenta la Academy of Fine Art, formazione imprescindibile, benché in un luogo per lui disturbante, ma, per sua stessa ammissione, vivo artisticamente e ingranaggio creativo fondamentale per approdare, infine, all’American Film Institute di Los Angeles, di cui ricorda “quella telefonata” d’ammissione, che gli “cambiò tutta la vita”. 

04 Settembre 2016

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