“La prima grande emozione al cinema me l’ha data Miracolo a Milano di Vittorio De Sica. Ha ragione Gabriel Garcia Marquez quando afferma che noi scrittori latinoamericani non esisteremmo senza il neorealismo italiano, senza quella capacità poetica e immaginativa di raccontare la realtà più dura”.
Lo scrittore cileno Luis Sepùlveda è al suo debutto come regista con Nowhere, anche se negli ultimi tre anni già si è cimentato con la sceneggiatura di Terra del fuoco di Miguel Littin e con una prova d’attore in Bibo per sempre di Enrico Coletti. E suoi sono i romanzi da cui sono stati tratti La gabbianella e il gatto di Enzo D’Alò e Il vecchio che leggeva storie d’amore di Rolf de Heer.
Nowhere è la versione per il grande schermo del suo romanzo “Incontro d’amore in un paese di guerra” ed è dedicato a tutti i cileni che hanno vissuto, negli anni della dittatura di Pinochet, la drammatica e tragica esperienza dei campi di concentramento. E’ un inno alla fratellanza e alla solidarietà, all’ottimismo della volontà anche in tempi bui, e narra l’avventurosa fuga di alcuni prigionieri politici da uno sperduto campo di prigionia nel deserto andino.
Il film, che sarà nelle sale l’1 marzo distribuito dalla 01 Distribution, è una coproduzione tra Italia (Surf Film), Spagna e Argentina, in associazione con Rai Cinema, con la collaborazione di Telepiù ed è stato girato in Argentina. Nel cast gli attori Harvey Keitel e Angela Molina, il compositore Nicola Piovani e il direttore della fotografia Giuseppe Lanci.
Sepùlveda come mai la scelta di abbandonare la pagina scritta?
Volevo raccontare questa storia non attraverso l’atto solitario dello scrittore, ma grazie al lavoro collettivo quale è il cinema. Una storia che poteva essere narrata solo con il cinema, a partire dal rapporto umano e fraterno con tutti i collaboratori. Realizzare questo film è stata un’esperienza dura, che si è rivelata ancor più faticosa del previsto durante le riprese.
Un debutto impegnativo?
Era un mio vecchio sogno cimentarmi dietro la macchina da presa, dopo un intenso rapporto passionale con il cinema come spettatore e alcune esperienze come sceneggiatore. Ho raccolto la sfida perché mi sento di vivere e respirare. E nonostante la prima volta non mi sono sentito inadeguato, non ho mai avuto la sensazione di essere un elemento estraneo.
Che cosa rappresenta per lei il cinema?
Sono cresciuto in un quartiere proletario di Santiago che, nel tempo in cui la televisione non c’era, aveva 6 grandi sale cinematografiche, ciascuna delle quali programmava 3 film diversi al giorno, e il lunedì 4 pellicole con biglietto a metà prezzo. Lì è cresciuto ed è stato educato il mio immaginario. I film della 20th Century Fox, MGM, di Cinecittà sono parte delle mie radici culturali. Del resto quello che scrivo devo sempre vederlo su uno schermo immaginario.
Che definizione darebbe della sua opera prima?
E’ un apologo sulla libertà. In fondo sono rimasto affascinato dal film di Roberto Benigni La vita è bella. E’ un omaggio alla libertà e alla dignità umana. Mi interessano le storie di persone non famose, di coloro che hanno avuto il coraggio di dire “no”, di opporsi sapendo di correre il rischio della morte. E’ un film politico, fatto da un uomo che sta da una parte della barricata.
Cosa significa oggi essere di sinistra?
E’ un’attitudine profondamente etica.
Quali film recenti ha odiato e amato?
Non amo i film di guerra americani come Black Hawk Down di Ridley Scott, uccidono la mia passione per il cinema a differenza de La stanza del figlio di Nanni Moretti.
I prossimi impegni?
Un produttore ha comprato i diritti del mio libro “Patagonia Express”, di cui scriverò la sceneggiatura, mentre il mio prossimo lavoro come regista sarà Hot Line. Come scrittore ho terminato “Fine del secolo”, in uscita per Guanda tra ottobre e novembre, uno sguardo al ‘900 attraverso le vicende di un albergo esistito realmente in un paese dell’Amazzonia.
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