Luigi Lo Cascio: la mia opera prima ideale


Giallo morale? Indagine esistenziale? Opera prima kafkiana? Venezia gli ha portato fortuna nel 2001, agli inizi della sua carriera da attore, quando Luigi Lo Cascio vinse la Coppa Volpi per l’interpretazione di Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni. Chissà che non ripeta il successo con il suo esordio da regista, La città ideale, in programma alla Settimana della critica e prodotto da Bibi Film e Rai Cinema con il sostegno della Regione Lazio e della Toscana Film Commission.

Un film di impianto teatrale, dove si rintracciano la passione per il teatro e l’esperienza maturata sul palcoscenico. A cominciare dalla scrittura che fa tesoro di ben tre testi teatrali da lui scritti, di cui ha anche curato la regia. Così come dal teatro provengono gli attori scelti per questo suo debutto dietro la macchina da presa: Luigi Maria Burruano, zio materno di Lo Cascio, Alfonso Santagata e Roberto Herlitzka.
E dall’ambito familiare provengono altri interpreti scelti da Lo Cascio: la madre Aida Burruano, ex insegnante, i suoi fratelli per alcuni ruoli minori. E la moglie Desideria Rayner ha collaborato alla sceneggiatura.

 

Protagonista di questa opera prima è Michele è un ecologista estremo che lasciata la sua Palermo, si è trasferito a Siena, città da lui ritenuta ideale, l’unica a misura d’uomo. E’ qui che Michele sta sperimentando concretamente la sua scelta ambientalista: vivere senza dover ricorre all’acqua corrente, se non piovana, o all’energia elettrica se non autoproducendola. Durante una sera di pioggia, Michele, guidando eccezionalmente l’automobile, resta coinvolto in due eventi dai contorni confusi e misteriosi. L’irruzione dell’imprevisto fa vacillare l’esistenza di questo uomo dai forti ideali, nonché le sue incrollabili certezze ecologiste.

 

Prima volta a Venezia da regista, come si sente?
Mio figlio piccolo di pochi mesi, è qui al Lido. Fino a ieri era tranquillo, stanotte invece si è svegliato alle quattro e io con lui. Forse gli ho comunicato un po’ d’ansia. Dal 2000, anno de I cento passi, questa è la nona volta che vengo alla Mostra. Dovrei essere abituato e invece esserci da regista, non solo come interprete, costituisce una prova particolare.

 

Come nasce il suo film che è difficilmente etichettabile in un genere e si nutre di elementi della realtà di oggi in un contesto letterario?
All’inizio non mi sono preoccupato che fosse un film, la storia si è composta pezzo dopo pezzo. Un testo che ha conosciuto diverse stesure, nel quale sono entrate le mie passioni di lettore, spettatore e di cittadino. In questo senso il film non rientra nei generi consueti.

 

Quanto il suo esordio rinvia a Kafka?
La scrittura è sempre un’esperienza personale. Kafka, Pirandello sono autori certo che mi piacciono, che mi hanno formato, sicuramente c’è qualcosa di loro nella scrittura, nel punto di vista. Ma non sono stati i riferimenti costanti. Certo il film racconta l’assurdo kafkiano, il ritrovarsi in una situazione che a poco a poco mostra i tratti dell’incubo.

Michele fonda la propria identità su valori che sembrano indiscutibili.

Il suo idealismo sconfina nel fanatismo. Quando la sua parola viene trasferita su un tavolo da gioco diverso da quello che gli è consueto, arriva lo spiazzamento. Michele è costretto a confrontarsi con la parola che incide sul suo destino, è la parola dell’atto e non più dell’interpretazione. Una parola che gli sfugge, che diventa enigmatica.

 

Che fine fa la città ideale che Michele sogna?
L’importante è che questo luogo ideale si confronti con la concretezza della vita. Il rapporto con la città ideale è anche il rapporto con se stessi. Con l’identità che ognuno di noi crea, credendola armonica ed equilibrata. All’improvviso irrompono il caso, l’inaspettato verso i quali non siamo attrezzati ed ecco la prima crepa nelle certezze di Michele, e si capisce che c’è qualcosa da ricostruire.

Come ha costruito il personaggio di Michele?
Vengo dal teatro e mi piacciono personaggi molto forti e così per dare qualcosa di maiuscolo al film volevo che i tratti del protagonista fossero marcati: un fanatico di quello che ama. Quando poi il caso lo costringe a prendere posizione, allora diventa evidente il capovolgimento per un personaggio così connotato.

 

E’ stato difficile dirigere e insieme recitare?
Il produttore Angelo Barbagallo mi ha convinto da subito, dicendomi che il film sarebbe stato molto più personale. Quella che all’inizio pareva una fatica in più è stata poi smentita dalla tecnologia che ti consente sul set di rivederti subito appena girata la scena. In fondo mi sono occupato della regia a partire dalla recitazione, ruolo che mi è più familiare.

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