“A Toronto vedi il tuo film in jeans e dopo la proiezione fai una chiacchierata con il pubblico che mangia pop corn. A Venezia, come a Cannes, tutto diventa una questione di vita o di morte. Certo, gli applausi sono meravigliosi e la proiezione ha qualcosa di sacro, ma in questo caso io me la facevo addosso e ho preferito stare rilassato”. È un Daniele Luchetti sincero e diretto, visibilmente teso ma pronto a raccontarsi senza troppi schermi in conferenza stampa qui a Roma come si è raccontato con ben pochi diaframmi in Anni felici, sicuramente il suo film più autobiografico. Di solito poco importa quanto una storia lo sia, ma in questo caso la vicenda di Guido e Serena è proprio quella dei suoi genitori (doveva intitolarsi “Storia mitologica della mia famiglia”) e di un bambino (Samuel Garofalo) che assiste, insieme al fratellino più piccolo, ai loro litigi e riappacificazioni e intanto scopre il cinema. Anzi, la pellicola. “Questo sarà l’ultimo film in 35 mm perché la pellicola sta morendo, la stiamo buttando nella spazzatura – dice il regista romano – per questo ho riguardato i miei Super8 di allora e li ho ricreati, girando con la stessa macchina da presa che i miei mi regalarono per la promozione e mi sono reso conto di quanto fascino abbia ancora usare un negativo, di quanta sensibilità andrà inevitabilmente perduta quando non ci sarà più altra scelta che il digitale”. Sottotesto parallelo (e probabilmente più interessante) per un film costruito come la storia di Guido e Serena. Lui è un artista bello e trasgressivo a tutti i costi che non riesce a trovare il suo stile e la sua libertà. Lei è una casalinga senz’altre ambizioni che quella di tenerlo legato a sé, ma è anche una donna bella e coraggiosa, che non passa mai inosservata. Il loro matrimonio è sempre in bilico, in equilibrio precario, nell’estate del 1974, tra Trastevere e Fregene, la famiglia chioccia e il referendum sul divorzio, l’imperativo della liberazione sessuale e il bisogno di fedeltà, il femminismo e il conformismo sessuale, l’avanguardia e la convenzione artistica. Anni che sembravano infelici ma non lo erano. “Dopo Mio fratello è figlio unico e La nostra vita mi trovo per la terza volta ad affrontare un racconto familiare e stavolta parlo della mia esperienza”. Cosa c’è di vero e cosa c’è d’inventato? “Ho dovuto inventare molte bugie per avvicinarmi a quella che umilmente definisco verità”. Così il film inizia con Dario che parla in prima persona e finisce con l’avvertenza che i fatti sono immaginari. O come ha detto la mamma (vera) al regista: “Tu sei un artista, un narratore e quello che racconti non mi riguarda. Però sono preoccupata di quello che diranno i vicini di casa”.
Serena, la madre della finzione, figlia di commercianti con ambizioni piccolo borghesi, è ossessionata dal tradimento ma finisce per tradire lei stessa, in un’estate in cui si concede una vacanza senza il marito in Camargue, in un campeggio femminista insieme alla gallerista tedesca e lesbica (Martina Gedeck) che la aiuta a trovarsi. Inevitabile rovesciamento di forza tra marito e moglie, lui da solo è smarrito, lei ce la fa benissimo: e anche il film, scritto da Rulli e Petraglia con Caterina Venturini, si concentra da qui sul personaggio femminile. “Serena è una donna contraddittoria, al tempo stesso matta e responsabile, madre e zoccola, in completa evoluzione e trasformazione”, spiega Micaela Ramazzotti, che ammette di essere partita dallo sguardo forte e determinato della mamma di Daniele. Mentre Kim Rossi Stuart racconta: “Di Guido in sceneggiatura non si spiegavano le ragioni e correva il rischio di essere monolitico. Io ho cercato di dargli una comicità alla Buster Keaton, di trovare la misura in una narrazione che potrebbe diventare commedia spinta come film drammatico”.
Luchetti ha perso il padre da molti anni, gliel’avrebbe fatto vedere un film così duro su di lui? “Quando ho girato il mio primo film, a 28 anni, ricordo il suo senso di complicità, mi ha stimolato sempre alla libertà artistica. E poi considero Anni felici un atto d’amore per l’umanità dei miei genitori e non un atto d’accusa”. Di Martina Gedeck dice di averla scelta dopo averla vista in un film come Ricette d’amore oltre che naturalmente nel bellissimo Le vite degli altri, “il personaggio di Helke è un omaggio a una baby sitter tedesca che ricordo dalla mia infanzia. Era bellissima e disinibita e per me quel nome, Helke, è sinonimo di peccaminoso. Martina, con il suo aspetto caldo e accogliente, riesce a non farne una femminista ideologizzata. È lei che ascolta veramente Serena per la prima volta”. Cerca di andare oltre gli stereotipi anche il personaggio del critico influente che prima stronca una performance provocatoria ma poco sentita e si prende una sberla, ma alla fine consacra un’opera avvolgente e sincera. “Per mio padre i critici erano un incubo, tanto che non aveva il coraggio di esporre se non per gli amici. Ricordo che una volta aspettammo tutto il giorno Achille Bonito Oliva in un’ansia terribile e crescente per scoprire solo alla fine che nessuno l’aveva invitato. Io invece vorrei che ci fosse più dialogo e meno stellette e pallini, ma so anche che ascoltare quello che dicono gli altri, siano critici o spettatori, per un artista è sbagliato. Si cade nel dover essere”. Aggiunge Stefano Rulli: “In certe polemiche di allora c’era grande passione e aspettative alte verso gli artisti, anche dalle stroncature spirava onestà”. Mentre Sandro Petraglia sottolinea che gli anni ’70 ritratti nel film sono “i ’70 prima del terrorismo, in una dolce estate con poche asprezze”. Un periodo in cui non si riconosce il 44enne Kim Rossi Stuart, un po’ riduttivo nella sua radiografia dell’epoca. “Di quegli anni ricordo tanti tossici e un desiderio di libertà che esplodeva attraverso la violenza”. Anni felici, prodotto da Cattleya e Rai Cinema, uscirà in sala il 3 ottobre in 250 copie con 01.
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