CANNES – Nadav Lapid ha scritto in appena due settimane la sceneggiatura del suo ultimo film Ha’Berech (Ahed’s Knee), in Concorso al Festival di Cannes. Una storia nata nel 2018 dopo la morte della madre, sua editor, mentre stava montando Synonymes, Orso d’Oro alla Berlinale 2019.
Il risultato è un film personale, diretto, libero, rabbioso, doloroso nel quale il regista rivolge un duro attacco contro il suo Paese. Senza mezzi termini, lo definisce “volgare, vuoto, grottesco, stupido”, mettendo in bocca quelle parole al suo protagonista (anche suo alter ego) del film, naturalmente un regista.
Attraverso movimenti isterici e irregolari della macchina da presa, Lapid affronta il lutto, che riguarda la perdita della madre, la perdita della libertà espressiva, la perdita dell’amore verso la sua Patria.Y (Avshalom Pollak) è alle prese con i provini del suo prossimo film sulla storia della giovane studentessa e attivista palestinese, Ahed Tamimi, nata e cresciuta sotto l’occupazione israeliana, alla quale avrebbero dovuto sparare a un ginocchio (da qui il titolo Ahed’s Knee) per farla rimanere ai domiciliari per sempre. Ma questo è un solo un prologo, perché l’azione si sposta poco dopo nel remoto villaggio di Sapir, nel deserto di Arava, dove il regista di Tel Aviv approda per la proiezione di un suo precedente lavoro, presentato a Berlino. Ad attenderlo c’è una giovane funzionaria del Ministero della cultura, Yahalom (Nur Fibak), che deve assicurarsi che il regista stia attento a trattare in un certo modo alcune tematiche nel film, come la famiglia, l’amore, la religione. Ma Y è un autore libero che rifiuta la censura, nonostante le costrizioni e le regole del suo Paese. Quel suo senso di frustrazione esploderà in un monologo finale, un flusso di coscienza pieno zeppo di parole, che si perderanno, però, in quel deserto desolato.
“Il mio è un film profondo e forte dove coesistono un’enorme intimità personale con una resistenza più ampia – racconta il regista – Un pittore diceva: ‘non voglio dipingere una macchina, ma mostrare ciò che provoca quella macchina’. E io faccio lo stesso, seguendo un mio preciso stato mentale e raccontando un universo pieno di strana bellezza, infinito e ambivalente”.
Del rapporto di amore e odio con il suo Paese, dice: “Tutti i registi provano questa sensazione di complessità, che spesso si trasforma in un cliché artistico e politico. Attraverso le parole di Y, mi sono abbandonato a sentimenti radicali verso la mia Patria. La bocca di quell’uomo vulnerabile si trasforma in una specie di mitra dalla quale esce una tempesta di insulti. Il mio eroe cade letteralmente in ginocchio. Le cose possono cambiare attraverso le parole, ma è anche vero che le parole si ripetono ovunque”.
Per interpretare Y, Pollak si è dovuto (in parte) immedesimare nel regista. “È vero, il mio personaggio è biografico. Ma nel costruirlo ho voluto mescolare ingredienti del mondo di Nadav ed elementi che mi appartengono. Non ho voluto imitare nessuno, ma confrontare lui con me stesso”, afferma l’attore israeliano, nonché coreografo e direttore artistico di una compagnia di danza. E di questa sua visione è d’accordo anche il regista: “Ho sentito che ci sono tanti aspetti in Y che appartengono anche a Avshalom”.
“Inizialmente non ho trovato piacevole il mio personaggio – dice Nur Fibak – Lei è cresciuta in quel villaggio, dove c’è ancora la sua famiglia, ma ho sentito in qualche modo la sua lotta contro i suoi stessi desideri”.
Lapid affida anche a Yahalom frasi molti dure riferite a Isreale: “Il ministero dell’arte odia l’arte. E il Governo odia tutta la bellezza umana”. Per dare una sterzata ai toni politici e intimistici del film, Lapid inserisce alcuni momenti musicali molto pop. “Non voglio fare un cinema snob che crei barriere con il pubblico – spiega il regista – E le canzoni che ho inserito (come Be My Baby di Vanessa Paradis, ndr) entrano nella mente e nel corpo delle persone connettendole le une alle altre. Ho pensato a quanti nel mondo si sarebbero mossi. La danza esprime chi siamo”.
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