Si può amare o detestare David Lynch, ma senza nessuna discussione la sua impronta lasciata nella cinematografia contemporanea è ben marcata e il suo nome è già leggenda. Tra l’altro ha avuto uno dei percorsi più insoliti verso la fama che si ricordi nella storia di Hollywood. Un tempo re dei “film di mezzanotte” negli anni ’70, Lynch è stato strappato a quel mondo dalla casa di produzione di Mel Brooks per dirigere l’adattamento della pièce teatrale di Broadway vincitrice del Tony Award The Elephant Man nel 1980.
La parola che probabilmente è più legata alla sua filmografia è “bizzarra”. il suo modo di fare cinema è così unico che è stata coniata la parola “lynchiano” per descrivere una storia raccontata come se fosse filtrata da una lente onirica, surreale, misteriosa. La particolare visione di Lynch (definita spesso “di nicchia”) ha prodotto alcune allucinazioni per immagini come Inland Empire e Strade Perdute, per dirne un paio, ma quando riconduce nei binari della narrazione più “tradizionale” (parola comunque inadeguata per la sua cifra stilistica) la sua fiumana creativa come in Velluto blu e Mulholland Drive, cambia la nozione stessa di ciò consideriamo “il cinema”.
Entrambi i film gli hanno procurato una nomination all’Oscar per la regia, mentre The Elephant Man lo ha condotto alla cinquina anche per la sceneggiatura, oltre che per la direzione. Infine nel 2020 il meritatissimo Oscar onorario per la sua carriera.Quando passò alla televisione,nel 1990, con la messa in onda da parte della ABC della sua serie mystery Twin Peaks, Lynch fece scalpore a livello nazionale e letteralmente ha rivoluzionato il modo di fare “serie” e contenuti per il piccolo schermo.
Ma perché parliamo di David Lynch oggi? Da lunedì 15 maggio è in sala LYNCH/OZ diretto da Alexandre O. Philippe che rintraccia con grande maestria e intelligenza il collegamento che esiste tra la poetica del grande cineasta americano e Il mago di Oz di Victor Fleming. Questa pietra miliare della cultura contemporanea è come un’allucinazione ricorrente nell’immaginario di Lynch e ha lasciato un segno indelebile nella sua opera, dilatando e deformando il confine tra realtà e fantasia.
Lynch/Oz di Alexandre O. Philippe (attraverso la suddivisione in sei capitoli in cui diversi studiosi, registi e critici cinematografici raccontano le loro teorie sul leggendario cineasta) ci guida attraverso la strada di mattoni gialli, esaminando come l’influenza e il linguaggio di Oz siano profondamente radicati nel cuore dell’opera cinematografica di Lynch. E per noi è un’occasione per recuperare i 5 suoi migliori film ordine di crescente preferenza
Il primo lungometraggio di Lynch è un piccolo esperimento, molto criticato e presto scomparso dalla programmazione “normale”. Ma il 1977 fu l’epoca del “film di mezzanotte”, in cui folle di spettatori (si dice spesso sotto effetto di stupefacenti) si riunivano a tarda notte per vedere opere che qualche proprietario di cinema definiva “un viaggio”: il film di Lynch rientrava perfettamente nella categoria. Nelle proiezioni del fine settimana, Eraserhead rimase in programmazione per due anni e mezzo a New York e per tre anni al Nuart Theater di Los Angeles. Sebbene Lynch fosse il più lontano possibile dall’essere un regista commerciale, Hollywood guardò comunque a quegli incassi da film di mezzanotte e nacque la carriera di David Lynch.
La premessa narrativa è semplice e inquietante: si tratta di un giovane costantemente nervoso e in difficoltà con il suo neonato dall’aspetto “parecchio strano”. A volte sembra che stiano accadendo molte cose, a volte che non succeda nulla. Eraserhead è un body horror surreale con elementi sperimentali che lo rendono senza dubbio una delle opere più bizzarre di Lynch.
È uno dei suoi più grandi film. Un neo-noir surrealista costellato di scene inquietanti, benedetto da performance di grande classe e, anche se smaccatamente lynchiana, dalla trama piuttosto lineare. Inizia tutto con l’orecchio mozzato che Jeffrey (Kyle MacLachlan) trova nell’erba, una scoperta che lo porta a riunirsi con la sua amica Sandy (Laura Dern) che suggerisce che il “pezzo” potrebbe avere qualcosa a che fare con la cantante di nightclub Dorothy (Isabella Rossellini). Jeffrey irrompe nell’appartamento di Dorothy e scopre che lei riceve regolarmente visite da un tipo losco, Frank (Dennis Hopper), che ha una certa passione per l’inalazione di gas e il sadomasochismo.
Velluto blu ha portato a Lynch la sua seconda nomination all’Oscar come miglior regista.
È un film molto poco lynchiano, senza nulla che possa essere definito onirico o di ispirazione horror, e manca anche di un conflitto nel senso tradizionale del termine, trattandosi semplicemente di un uomo anziano che vuole andare a trovare suo fratello, che è in cattive condizioni di salute. In questa storia realmente accaduta Alvin Straight, non potendo usare l’auto, guida il suo tosaerba per fare un viaggio di quasi 400km. The Straight Story (titolo originale) è uno dei film più acclamati dalla critica che Lynch abbia realizzato fino ad oggi, un road movie unico nel suo genere, un percorso lento ma costante senza antagonisti a renderlo problematico. È un film pacifico, tutto fatto di personaggi, commovente, lineare fino al paradosso, specialmente se si mette a confronto con le altre opere di Lynch.
Di tanto in tanto, Lynch si cimenta in un film di genere, e Cuore selvaggio è la sua interpretazione distorta del modello “amanti in fuga”. Vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1990 racconta di Sailor Ripley (Nicolas Cage, con tanto di giacca di pelle di serpente) appena uscito di prigione e raggiunto dalla fidanzata Lula (Laura Dern) in fuga in California, violando la libertà vigilata anche per sfuggire a Marietta, la madre fuori di testa di lei, che dopo aver visto rifiutate le sue avances sessuali al “genero”, ingaggia un gangster per rintracciare la coppia e uccidere l’evaso. Imperfetto e bellissimo, un film che va recuperato subito.
The Elephant Man, un dramma emotivo capace di commuovere come nessun altro film del geniale regista, rimane il suo più grande trionfo commerciale e uno dei più acclamati dalla critica. Fu candidato a otto premi Oscar, tra cui due per Lynch – miglior regia e miglior sceneggiatura non originale – e il clamore suscitato dal fatto che lo straordinario trucco del film non ricevette alcun riconoscimento spinse l’Academy a creare, l’anno successivo, le categorie del miglior make-up e miglior hair style. La storia di Joseph Merrick (qui chiamato John e portato in vita da John Hurt), un uomo orrendamente deforme che viene salvato da un baraccone londinese dal gentile chirurgo Dr. Frederick Treves (Anthony Hopkins), è stata una pièce teatrale vincitrice di un Tony Award, oltre che un film per la TV e un radiodramma. Ma sono l’occhio di Lynch e il suo stile elegantissimo, supportato dalla splendida fotografia in bianco e nero di Freddie Francis, rendono The Elephant Man un’esperienza unica nel suo genere.
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