‘La settimana senza Dio’. Nicola Nocella e il senso del gusto del cinema tunisino

Il film di Mourad Ben Cheikh in anteprima italiana al Bif&st, dall’11 aprile nelle sale italiane: è stato un fenomeno al box office tunisino, prodotto da Alfa Multimedia e Habib Attia, con protagonisti l’attore italiano - che qui lo racconta - e Amal Mannai, assistente alla regia alla sua prima prova d’attrice


BARI – Amadeus (Nicola Nocella) s’innamora di Betty (Amal Mannai). Succede a Lecce, mentre lei è di origini tunisine: i suoceri di umili radici intercettano l’opportunità del benessere ma alle loro condizioni: cambio nome, cambio religione e… circoncisione.

Prodotto da prodotto da Alfa Multimedia e Habib Attia, il film di Mourad Ben Cheikh, in anteprima italiana al Bif&st – sezione A Sud, è stato un fenomeno al box office tunisino e, dopo il passaggio barese, esce nelle sale italiane dall’11 aprile.

Nicola, il suo Amadeus è un antiquario: la simbologia di questo mestiere, che porta in sé l’antico, la tradizione, ma anche il concetto di ‘rinascita’, quanto e come l’ha influenzata e sfidata per la costruzione del personaggio?

La postura di Amadeus è totalmente derivata da due cose, dall’approccio costrittivo che ha avuto sua madre con lui, e dal fatto che lui sia abituato al bello, a mercanteggiare il bello, che è una cosa complessa, che significa dare un prezzo alle cose belle, infatti lui è diventato molto bravo a mercanteggiare, lo dice, e nel film si vede che questo essere un antiquario vuol dire innanzitutto avere imparato ad ‘avere cura’: Battiato è stato molto chiaro su questo concetto, ha fatto la più grande canzone d’amore della storia senza dire mai ‘amore’ ma ‘cura’, e così Amadeus ha cura degli oggetti attorno a sé. Come si muove nello spazio, questo ha cambiato la mia postura e quindi cambia il personaggio, perché Amadeus è costretto ad avere un passo felpato, a muoversi con grande attenzione, ad avere un ritmo molto lento, quasi sincopato, e poi anche a cambiare il suo respiro, muovendosi a quel ritmo, con quella lentezza: siccome io sono un attore che parte molto spesso da questo, prima trovo il respiro, la camminata, il movimento, il punto motore di Amadeus era chiarissimo. Tra l’altro, il primo posto dove mi ha portato Mourad è stato proprio l’antiquario di Lecce, uno degli antiquari più famosi del Sud Italia, che ci ha fatto girare lì: vederlo vestito esattamente come mi aveva pensato Mourad mi ha permesso di capire tutto.

Il film ha un titolo evocativo e quasi provocatorio: che interpretazione lei ha attribuito al concetto di ‘una settimana senza Dio’, e come s’è riflesso sulla sua interpretazione?

Mourad mi ha scritto questa battuta, ‘una settimana senza Dio’, che diventa per lo spettatore ‘la settimana senza Dio’, permettendomi così di farla mia veramente. Quando sono andato a Tunisi ho scoperto che davvero tante gente ha vissuto una settimana senza Dio, proprio per sposare una ragazza tunisina. Questa settimana senza Dio per Amadeus è la settimana in cui non è senza un Dio ma bensì ne ha due, ecco perché diventa importante il momento in cui gli dicono tutti che ce n’è uno soltanto, un unico Dio: la riflessione sulla religione che fa Mourat è molto più grande di quello che sembra dalla commedia; una settimana senza Dio per Amadeus dà un senso a quello che deve fare, e non è una mancanza, lo arricchisce. Pian piano Amadeus si scompiglia un po’ i capelli, perde anche l’aplomb, perde tutta la corazza: interpretare gli ultimi venti minuti di film con la jebba, il costume tradizionale tunisino, non mi ha mai fatto sentire senza Dio, ma mi ha fatto sentire coccolato da due entità, questa la grande forza, perché in realtà sono gli uomini che trasformano la religione in fanatismo.

Il film è una commedia ma tocca anche temi esistenziali e spirituali: l’hanno portata a riflettere in modo diverso sulla Fede, sul destino o sul vacillare del sacro nella nostra epoca?

Riflettere sui grandi temi vuol dire riflettere partendo dai temi più piccoli. Mourat mi ha fregato perché la prima sera in Tunisia mi ha preso, mi ha portato a cena e mi ha parlato di cibo: nella settimana di preparazione che ho vissuto a Tunisi mi ha fatto mangiare tutto quello che c’era negli street food tunisini; uno street food tunisino è molto più libertino nell’approccio ai servizi igienici, però tu mangiavi quella roba perché se la mangiava lui la mangiavi anche tu, e lui e io abbiamo mangiato per una settimana le stesse cose: dopo una settimana io già avevo l’abitudine al piccante, avevo l’abitudine alle spezie, al coriandolo, e per uno che arriva da una cultura diversa, il cibo è cultura e Mourad mi ha fatto fare una settimana intensiva di cultura tunisina mangiando quel cibo, spiegandomi perché lo mangino, facendomi bere il tè alla menta alle cinque di pomeriggio, e aveva ragione, perché così entri in contatto con i grandi temi. Noi abbiamo girato ovviamente non in sequenza, le prime tre settimane lì e l’ultima a Lecce, quindi vuol dire che tutta la parte iniziale della storia l’abbiamo girata alla fine: quando sono tornato in Italia e sono ritornato a quella che è la mia cultura, anche culinaria, mi sono reso conto di quanto fossi stato arricchito da questa cosa, e ragionare su cosa mangi un popolo e su come lo mangi, quando e perché, fa parte della tradizione, ti costringe a ragionare anche sul perché poi si facciano determinate scelte.

Nel film c’è un’intesa – a tratti anche silenziosa e dolorosa – tra il suo personaggio e quello femminile di Betty (Amal Mannai). Quanto di quella connessione è nata spontaneamente tra lei e l’attrice, e quanto invece è stata costruita scena per scena?

No, costruita no. Mourad ci ha voluti insieme e ci ha fatto vivere insieme per una settimana, con lui ovviamente: per Amal era il primo film, lei fa l’assistente alla regia, che è l’unico motivo per cui abbiamo litigato io e lei sul set, perché ha iniziato a fare l’assistente, ma io le ho detto ‘no, Amal, sei la prima attrice, non devi tenere la radio, non devi muovere le figurazioni, dobbiamo dire le battute’: lei si sentiva a disagio perché non poteva fare il suo solito lavoro, e lì Mourad mi ha detto ‘dillo tu’, perché se glielo dici tu sembra che ti incazzi e allora si metterà sull’attenti; andavamo a pranzo tutti e tre insieme, lei mi spiegava le cose, come Betty insegna le cose a Amadeus, e lei me le ha insegnate sul serio, assieme a Mourad: quella connessione che lei vede, quella sinergia, è perché Amal è molto in sinergia con Mourad e io molto con lui, è un triangolo, che però infine – nel film – si chiude fra me e lei. Io mi sono fidato di lei ma non mi sarei potuto fidare se non mi fossi fidato di Mourad, e viceversa: era un unico canale comunicante e grandissimo merito va a Mourad, è stato veramente bravo perché ha capito che non potesse forzare quella complicità, cioè non poteva dire ‘amatevi’, ma l’ha costruita partendo dalle cose minuscole, dalla quotidianità, come quella volta che sulle poltrone dietro il set ci siamo addormentati entrambi, vicini, non mano nella mano ma vicini, e Mourad ha detto ‘lasciateli così’.

Com’è stato il dialogo con la regia di Murad Ben Cheikh – formato anche al DAMS di Bologna? Ha rintracciato nell’intenzione, nella messa in scena, un modus operandi particolare, impregnato di una cultura e di una spiritualità dense e specifiche come quella tunisina e, altrettanto, della Commedia all’italiana?

Con lui abbiamo creato un territorio comune, lui parlava di cose che io conoscevo, questo ti permette di creare un territorio comune con dialoghi: lavorare su un set, divertirmi, seguire questo ‘spartito jazz’, capire cosa succede, ma appunto con un territorio comune. Come si scrive in Italia si scrive in tutto il mondo, ma quello che restituisce la Commedia all’italiana è il gusto: sapore e gusto sono due cose diverse, in cui il gusto può riportarmi magari a quando io… avevo sei anni, e Murad mi ha fatto capire il suo gusto, me l’ha fatto amare e mi ha portato da sé. Mi sono sentito proprio così: dentro questo percorso c’è anche tutto il lavoro che ha fatto Habib Attia, il produttore, perché ‘è scomparso’. Io sono arrivato là ma lui è arrivato solo alla fine del film e ha chiesto: ‘com’è andata?’ Una fiducia totale. È un modo di fare che non è quello dei produttori italiani, che spesso stanno proprio dietro al monitor, mentre lui non si è mai fatto vedere ma ‘c’era’, c’era attraverso Mourad e io così mi sono fidato e basta. Ho capito che il mondo arabo ha un modo di raccontare le cose che è diverso dal nostro, ma non per questo meno bello, meno giusto: mi sono appassionato molto al loro cinema e ne è valsa la pena.

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