La “regina” ha chiamato Scalfari a sé, ora insieme a Gassman, Fellini e Mastroianni

Eugenio Scalfari col cinema ha avuto a che fare come protagonista di un doc su di lui, ma anche con due interviste storiche, di cui una a Federico Fellini, realizzata a Cinecittà nel ’79.


98 anni appena compiuti il 6 aprile, era nato nel ’24 Eugenio Scalfari, che è stato chiamato della “regina”, come lui chiamava la morte, “che quando arriva ti tocca con un dito e ti porta con sé”: questo l’abbiamo scoperto da lui, dal suo vivo racconto nel film documentario di cui è protagonista, Scalfari. A sentimental journey, scritto dalle figlie Donata e Enrica con Anna Migotto, diretto da Michele Mally, prodotto da Rai Documentari e 3D Produzioni, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2021 come Evento Speciale, e che include anche materiale dall’Archivio Luce, in particolare una preziosa sequenza di lui che batte alla macchina da scrivere. 

Il rapporto di Eugenio Scalfari con il cinema, però, non è stato solo per divenire “l’attore principale” di una biografia su di sé, ma – ironicamente, senza che possa suonare irriverente, anche perché proprio lui è stato maestro del gioco di mischiare “alto e basso” – sussisteva nella sua quotidianità di giornalista, infatti il fondatore de “L’Espresso” e de “la Repubblica” era soprannominato anche “Barbapapà” – termine mutuato dall’omonima serie tv animata, sopraffina e illuminata nel precorrere i tempi -, nel suo caso per la barba patriarcale, complice del carattere deciso e vivace, che lo rendeva un profilo intrigante, oltre che autorevole, acuto, precursore, trasformatore, cosa che di certo è stato per la Storia del Giornalismo italiano. 

Compagno di banco di Italo Calvino al liceo, Scalfari evidentemente amava “gli odori”, infatti quando il 3 maggio del ’96 si congeda dalla sua “Repubblica” dice alla redazione: “Vi lascio il rosmarino per i ricordi, le viole per i pensieri”; e, a conferma di una certa passione per queste erbette, Roberto Benigni, sempre nel doc biografico, parlando dell’’immensità d’intelletto di Scalfari lo dice capace d’argomentare contestualmente “dall’Illuminismo al basilico”. Scalfari, poi, amava la musicaA sentimental journey – titolo del film appunto, è anche titolo di una canzone di Doris Day, da lui prediletta nella versione di Ella Fitzgerald: inoltre, Scalfari amava anche il cinema e ce l’aveva anche ricordato molto di recente, il 22 gennaio scorso, sulle colonne di “Repubblica”, scrivendo un articolo in cui rifletteva sul tempo che passa, ricordando lì il suo celebre incontro con Gassman e Mastroianni, in cui si parlò del tema. “Era il 1996, avevo invitato Gassman e Mastrioianni in una saletta del Grand Hotel di Roma per una chiacchierata a tema libero, che si sarebbe poi conclusa con una colazione. Avevamo allora tutti e tre circa la stessa età, intorno alla settantina. Ricordo che li salutai dicendo che in tre superavamo i due secoli, ma loro non raccolsero …  Mastroianni camminava a piccoli passi con le spalle leggermente curve; portava occhiali cerchiati di tartaruga, era visibilmente dimagrito e invecchiato. Poco dopo, a passi lunghi, spalle erette, era entrato Gassman: magro anche lui ma atletico, la faccia solcata da cento rughe sottili come quelle della mela renetta quando è al colmo della maturità … Che cosa ricordo di quel pomeriggio? Mastroianni che dice che la vecchiaia t’arriva addosso quando nemmeno te l’aspetti: ‘A un certo punto ti cominciano a chiamare maestro. Maestro di che? dico io. E mi rispondono: è per rispetto’. E ricordo, mentre Marcello ragionava su quel passaggio, (‘sarà qualche rotellina dell’ingranaggio che non funziona più come un tempo, sarà una piega della bocca, una ruga in mezzo alla fronte, non so: un modo diverso di guardare le donne, più dolce, meno aggressivo’), Gassman che lo interrompe. E dice: ‘Hai fatto caso che dopo esser sempre stato per tanti anni il più giovane della compagnia, a un certo punto, in sei mesi, diventi improvvisamente il più vecchio? E capisci che da quel momento in poi sarà sempre così, sarai il più vecchio, ti guarderanno con rispetto se ti va bene e se i giovani che ti frequentano sono bene educati, oppure con una certa compassione, con un sentimento anche protettivo, con la voglia di mandarti a letto presto per paura che ti stanchi o magari perché sono loro a essersi stancati di te’. Ancora, ricordo che si parlò di donne, con loro — protagonisti di storie e avventure indimenticabili — che si lamentavano degli sguardi femminili ‘materni’ che ora ricevevano, altro segno dell’arrivo della vecchiaia. E di figli, anche loro via via più protettivi. A ripensarci ora, quasi trent’anni dopo, con Marcello e Vittorio ormai andati da tempo, quei pensieri sulla vecchiaia mi fanno quasi sorridere. E capisco la loro iniziale ritrosia a parlarne”. Così, dunque, scriveva Scalfari solo pochi mesi fa, ricordando quell’incontro monumentale. 

Un altro passaggio del rapporto tra Eugenio Scalfari e il cinema si estrapola dalle righe di un’altra sua storica intervista, a Federico Fellini, La sera andavamo in via Veneto, anno 1979, in cui il giornalista incontra il regista a Cinecittà: “Il Maestro è un po’ dimagrito, ma invecchiato non direi. Porta pantaloni in cotone e una maglietta azzurra a maniche corte. Capelli non ne ha più molti e sono fini e bianchi. La faccia abbronzata ricorda quei tratti da antico romano che si vedono incisi sulle medaglie: naso forte, fronte ampia, bocca ben disegnata. La voce è, come sempre, morbida e il tratto gentile; le inflessioni della parlata romagnola si mescolano ormai con alcuni accenti romaneschi e ne esce un miscuglio strano, assolutamente personale. L’insieme somiglia poco al Fellini che abbiamo conosciuto in tempi andati, quello un po’ capriccioso col cappelluccio nero piantato sulla nuca, diventato poi, col passare degli anni, il cappello floscio a tesa ampia reso celebre dal suo ‘alter’ Marcello Mastroianni in 8 ½ . Adesso ha l’aria più sicura, imperiosa”, scriveva, per poi cominciare a incalzare con le domande (di cui segue un estratto, ndr). Maestro, qual è tra i tuoi film quello che ti è piaciuto di più? Riflette qualche secondo. Forse  , dice, o La dolce vita. Sì, questi due, ma lo dico sulla memoria. Non rivedo mai i miei film. Appena ho terminato il lavoro e partecipato, per cortesia verso i miei ospiti, a qualche visione privata, il film se ne va per la sua strada e io per la mia. E non vi incontrate mai più? Mai più. C’è una ragione? Non risponde subito.

Siamo nello studio numero 5 di Cinecittà, sul set, come si dice in gergo. Lo studio è stato trasformato in un vasto appartamento con un décor dannunzianeggiante, un Vittoriale da quattro soldi, porte e specchi nel salone, tende di tela bianca, grandi divani, e piccoli sgabelli, pianoforte a coda, nel “boudoir” tendaggi più pesanti, spade antiche alle pareti, “cineserie”, giade, paraventi, art déco, in un salottino “liberty” un’immensa torta nuziale di cartone con diecimila candeline. Questa è la casa di Cazzone, uno dei personaggi principali del nuovo film che Fellini sta girando e che sarà terminato (“Dio lo voglia”, invoca il produttore Renzo Rossellini) a fine agosto. “E la torta sarà accesa”, spiega Federico, “per festeggiar la scopata numero diecimila di Cazzone, asserragliato in quest’ultimo baluardo del maschilismo italiano”.

“E poi”, mi dice (Fellini a Scalfari, ndr), “siamo o non siamo due mostri sacri?”, con l’aria vagamente complice di chi fa un po’ di ironia sulla propria immagine ma insieme se ne compiace. Ma, dietro quest’aperta disponibilità c’è la resistenza, che ben gli conosco, a parlarmi del suo nuovo film prima che sia compiuto, a svelare il mistero. “Perché”, domanda Federico, “ti interessa capire in che modo vedo io i tempi che stiamo vivendo? Bada che io non so parlare per concetti, ho sempre parlato attraverso le immagini. Quando mi si porta sui concetti dico delle banalità vergognose. Me ne accorgo sai? Me ne accorgo mentre le dico, ma mi vengono fuori così. I concetti non sono il mio forte”, aggiunge abbassando la voce e quasi “parlando a se stesso”, come suggerirebbe di fare a un suo attore nel recitare una battuta meditativa, “io sono solo un artigiano”. Gli rispondo che non ho nessuna intenzione di portarlo sul terreno delle idee generali, e per questo gli ho chiesto di venire qui al teatro numero 5, a vederlo lavorare in mezzo ai suoi operatori, ai suoi elettricisti, ai suoi attori e alle cianfrusaglie dell’appartamento di Cazzone. “Ma perché proprio me?”, insiste lui con sincera modestia. “Sei stanco di intervistare i ministri e i banchieri? Che ti posso dire io sui tempi in cui viviamo?”. Io credo che Fellini possa dirmi molto, molto più dei ministri e banchieri e capipopolo, per la buonissima ragione che l’arte è assai più vera della vita. 

E, dopo essere stato spettatore sul set, Scalfari riceve lui una domanda, da Fellini: “Hai visto, don Eugenio? Eri mai stato sul set? … che cosa vuoi sapere?”. Non preoccuparti Federico, non voglio saper nulla di tutto questo. Voglio sapere perché tu non rivedi mai più i tuoi film dopo che hai finito di montarli. Adesso siamo a tavola, un piccolo pied-à-terre sopra lo studio numero 5. Verdura, formaggi, bresaola, una bottiglia di Gavi. E poi Scalfari incalza: Hai paura della morte? “Sì, ho paura della morte”, risponde Fellini. Sei affezionato agli oggetti, ai luoghi, te ne distacchi con sofferenza? “Al contrario, me ne distacco con completa indifferenza”. È strano, chi ha paura della morte di solito cerca di difendersi attraverso la ripetitività dei gesti, dei luoghi, degli oggetti. Tu no? “Io no, e sai perché? Io mi difendo attraverso la ripetitività delle memorie. Ho uno zoccolo di memorie addirittura ossessivo; mi seguono da per tutto, in ogni momento, stanno nel mio cervello, davanti ai miei occhi, entrano nei miei film. Perciò m’importa poco di conservare oggetti e luoghi e persone; il mio modo di difendermi contro la morte è la memoria. Una continua ‘recherche’…”. E come finisce? “Ah, questo non te lo dico. Volevi sapere come la pensavo sui tempi che stiamo vivendo? Adesso andiamo a dormire”.

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14 Luglio 2022

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