Suona come un’ulteriore voce contro la violenza sulle donne – tristemente, uno degli argomenti più frequentati dalla cronaca nera di questi anni – l’uscita del film premiato a Venezia ’70 La moglie del poliziotto, del tedesco Philip Groning. Un film che, secondo il regista, deve soprattutto suscitare il dibattito “perché – dice – il cinema deve essere un luogo di discussione e sviluppare nello spettatore una domanda: come essere umano, cosa trasmetto agli altri, l’amore che ho ricevuto o solo distruzione? Quale ruolo ricopro nei confronti del mio prossimo? Io stesso mi pongo per primo queste domande”.
Il tour della pellicola, distribuita dalla Satine Film di Claudia Bedogni, è iniziato proprio a Milano per incontrare donne, scuole e associazioni nella Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, e prosegue a Roma e in altre città d’Italia (Reggio Emilia, Bologna), testimonial d’eccezione di un problema che da sempre affligge la società e di cui adesso, per fortuna, si parla cercando di accrescerne la consapevolezza tra vittime e carnefici. Nei primi mesi del 2014 si procederà a una distribuzione ancor più capillare.
Il regista di Dusseldorf racconta per quasi tre ore la vita di una famiglia di provincia in 59 piccoli frammenti che tocca allo spettatore ricomporre per ricostruire la storia d’amore tra una madre Christien (Alexandra Finder) e sua figlia Clara, e quella violenta tra un uomo frustrato, Uwe (David Zimmerschied), incapace di mantenere relazioni e una donna che risponde all’odio con l’amore e cerca di proteggere l’anima della sua bambina. “Abbiamo fatto il film senza sceneggiatura – dice Gronig – con tre o quattro pagine di trattamento. Poi io e la mia coautrice abbiamo scritto delle scene, avevamo tantissimi pezzi di carta con su scritto cosa avrebbe potuto succedere. Abbiamo iniziato le riprese e sapevo fin dall’inizio che sarebbe stato separato in capitoli con la didascalia in apertura e in chiusura, perché mi sembrava importante che il pubblico avesse la possibilità di vedere quella storia come una parabola, nel senso che ti chede cosa stai facendo tu nella tua vita rispetto a quello che vedi. Si è trattato di un mix tra il concetto iniziale e l’improvvisazione. Ad esempio la scena inziale: facevo jogging in un bosco bellissimo dopo le riprese e sono andato a prendere la macchina da presa per vedere se potevo girare delle immagini quando all’improvviso è spuntato quel coniglio e ho subito saputo che sarebbe stata la prima immagine del film e così sono nate moltissime cose. E’ stato un lavoro molto reattivo alle circostanze ma poi ho lavorato molto al montaggio – in genere ci lavoro sempre un anno o due – per mettere a punto la struttura in modo che funzionasse”
“Alla fine – spiega il regista – c’è uno scambio, chi resta in vita al prezzo di chi muore. Ho parlato con psicologi e con chi aveva vissuto qualcosa di simile e mi sono reso conto che nella profondità di una relazione d’amore così malvagia c’è una distruzione su ogni fronte, quando utilizzi la violenza contro qualcuno la commetti anche contro te stesso. In una società civile -aggiunge il regista- chiè civilizzato rifiuta la violenza, più uno diventa violento e meno rimane umano. Nella nostra società, invece, regna il silenzio, la passività,si va avanti senza curarsi di ciò che accade, come fa il personaggio del vecchio che rappresenta, analogamente al coro della tragedia aristotelica, l’opinione pubblica”.
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