Sei pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo si ritrovano, per un errore, nello studio dello stesso famoso psicoterapeuta, alla stessa ora. Tra loro c’è Federico (interpretato da Claudio Bisio), affetto dalla sindrome di Tourette, che non riesce a controllare i suoi impulsi di dire parolacce e fare commenti irriverenti… e questo è solo uno dei suoi problemi! C’è poi Annamaria (Margherita Buy), ossessionata dal controllo: verifica continuamente di aver chiuso il gas, spento le luci e si preoccupa costantemente di dove abbia lasciato le chiavi dell’auto.
Emilio (Claudio Santamaria) è il più espansivo e socievole del gruppo, ma ha una fissazione per i calcoli aritmetici e conta compulsivamente qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Bianca (Valentina Lodovini), invece, è ossessionata dalla pulizia e evita ogni contatto fisico con gli altri, una missione impossibile vista la situazione. Otto (Leo Gassmann) è terrorizzato dall’idea di perdere qualsiasi opportunità lavorativa, al punto da non riuscire mai a staccarsi dal cellulare. Infine, c’è Lilli (Ludovica Francesconi), che soffre di un’ossessione per la simmetria e ripete ogni cosa due volte.
Ad accompagnare il gruppo c’è Sonia, la segretaria dello studio (interpretata da Lucia Mascino), che a sua volta è nevrotica e logorroica, e tenta disperatamente di mantenere la calma tra i pazienti. Mentre aspettano che il dottore arrivi, i sei decidono di organizzare una terapia di gruppo improvvisata. Questa esperienza li costringe a collaborare, affrontando non solo le proprie ossessioni ma anche i traumi personali, mettendosi a nudo di fronte agli altri.
Esce in sala dal 21 novembre Una terapia di gruppo di Paolo Costella, distribuito da Warner Bros. Pictures, tratto dal soggetto originale di Laurent Baffie e dall’adattamento spagnolo di Julián Quintanilla Toc Toc, diretto da Vicente Villanueva.
Rompe il ghiaccio in conferenza Lodovini: “Molti fattori mi hanno fatto sposare il progetto. Sono affascinata di mio dai testi teatrali, i miei sei compagni di scena sono fantastici. E voglio bene al mio personaggio, mi ha toccato subito l’anima. Mi richiedeva una certa responsabilità ed è stata una grande opportunità. Sono arrivata alla sua fobia partendo dall’interno, chiedendomi come mai ce l’avesse. Non è nata col disturbo, ha subito un trauma che ce la porta. Nella nostra società ci sono tabù relativi alla malattia e alla morte. Mi interessava che venissero raccontate le ferite dietro ai disturbi ossessivo compulsivi, col sorriso. C’è un invito forte a non rimanere in silenzio e chiedere aiuto. Tanti fattori delicati che rendevano il film prezioso. Sono piuttosto empatica, è una fortuna, vivo le diversità come ricchezza. Questo film è anche rivolto a chi conosce le vittime di soprusi. Diventa uno specchio sul quale riflettere senza raccontarsi bugie. Quando sai che succedono certe cose, partecipi o ti giri dall’altra parte per non essere coinvolto? Ci ridi sopra? Mi piacerebbe risvegliare un po’ di coscienze. Questo succede quando cominci a ridere con i personaggi e non di loro”.
Per Mascina è “un film di sostanza, che tratta vera materia umana e sociale. Anche se io penso che le manie ben coltivate possano renderti migliori. In questo film si parla di qualcosa di molto corposo. Il fatto di farlo attraverso la commedia e prendere uno switch di leggerezza arricchisce un progetto di qualità. Il personaggio era tracciato ma ho avuto anche tanta carta bianca, quindi un’esperienza di rara felicità e libertà. Ero sicura in mano a protagonisti così forti, non c’era l’ansia che si porta dietro un pilastro centrale. Ero rilassata, e me la sono spassata tantissimo, anche nelle trasformazioni fisiche del personaggio, portando anche differenze rispetto alla versione spagnola”.
Ricorda poi che “da alcuni sindromi si può guarire, e anche se non fosse di passaggio, il problema diventa l’identificazione di una persona con la malattia. Il film parla di spostarsi da sé stessi e andare verso qualcun altro, ti aiuta a relativizzarti. C’è una nuova ondata di bullismo e di bisogno di giudicare e puntare il dito, in qualsiasi gruppo umano un po’ numeroso. Importantissimo parlarne. Il grande limite non è la malattia, ma la vergogna che ti fa provare, e che ti limita”.
Dichiara Bisio: “Ci siamo ispirati più alla versione teatrale francese che al classico spagnolo, girando in estate a Roma in un clima torrido. Ho sudato letteralmente sette camicie. Ogni personaggio nasconde qualcosa e questo dà spessore a tutti. Abbiamo girato anche tante versioni della stessa scena. Abbiamo regalato al montatore e al regista possibilità infinite”.
Le pellicola è prodotta anche da Roberto Sessa per Picomedia: “La scommessa – dice – era notevole. Soprattutto perché la cosa più importante in questo contesto di provenienza teatrale sono i dialoghi e gli attori. L’adattamento era molto ben fatto, ci siamo allontanati dalla versione spagnola, recuperando molto dalla pièce francese, che è un classico in America Latina e Spagna. Ne esisteva anche una versione italiana, molto “off”. Dovevamo chiaramente adattarci al nostro paese e trovare un cast che sapesse movimentare il racconto. Ci siamo riusciti e ne sono molto contento. Anche il consenso è stato immediato, abbiamo lavorato in comfort zone”.
“Le ossessioni compulsive – dice ancora Bisio – le abbiamo un po’ tutti. L’assiduità le rende patologiche. Tutti temiamo di aver dimenticato il gas accesso o a volte non calpestiamo le righe, anche solo per gioco. Se diventa un’ossessione allora è grave. E’ importante parlarne. Non voglio dire che sia un film terapeutico ma certo è utile. Mi sono documentato bene sulla Tourette, anche la figlia di un mio amico, ventenne, ce l’ha. Ho parlato con lei e le ho chiesto come potessi fare per evitare di offendere, o altro. Per lei invece parlarne era un bene, alla fine mi ha ringraziato”.
Ancora, circa l’adattamento: “Alcune storie sono create appositamente per la nostra versione, come il rapporto tra il mio personaggio e la figlia. L’impianto teatrale ci ha permesso di lavorare in senso cronologico, il che ha favorito l’aderenza a una terapia di gruppo reale. Abbiamo fatto un reale lavoro di squadra. Alcune cose sono entrate in sceneggiatura in corsa. Siamo sei personaggi in cerca di uno psicanalista, se non di un autore”.
Concorda Gassmann: “Importante parlare in pubblico di certi problemi, che a volte non si rivelano tali. I personaggi trovano un modo di convivere con queste paure e sentirsi meno solo. Viviamo in un mondo in cui stiamo smettendo di parlare e confrontarci dalle cose piccole alle grandi. Se lo facessimo sarebbe un mondo migliore. Ma la differenza sta soprattutto in come reagisci agli ostacoli che la vita ti pone davanti”.
Fa eco Buy: “Certamente questo aspetto viene fuori nel film. Bisogna innanzitutto riconoscere che si ha un disagio. Molti non riescono a farlo e vivono male, con conseguenze anche disastrose. Resta una commedia, ma anche in questo racconto arrivare al limite della propria sopportazione diventa importante. La gente si spaventa se gli dici che deve parlare con qualcuno, anche questo fa parte del problema. Può solo fare bene. Sono a favore dell’introduzione di uno psicologo anche nelle scuole, alla base di una salute mentale importante quanto quella fisica. Non deve più essere un’esclusiva per un’elite, soprattutto dopo il Covid e quello che i giovani hanno subito”.
“Vale anche per i film – commenta Costella – il buio della sala può essere terapeutico e fonte di conforto. I miei riferimento vanno da Verdone ad Altman, ovviamente poi dimenticati per affrontare una storia nuova. Qualcuno si è confrontato con un consulente o uno specialista, in altri casi abbiamo aggiunto. Il personaggio di Santamaria ha sia la ritmomania che la sindrome da accumulo, due cose che spesso si associano”.
Per Francesconi “il film è importante perché parla di richiesta d’aiuto e di voler condividere il proprio star male. E’ una “normalizzazione”, anche se non amo il termine “normale”. Stare male non sempre è qualcosa di disastroso, può nascondersi in piccole cose che non notiamo e possono avere grandi conseguenze. Mi ritrovo in molti dei personaggi, tutti abbiamo piccole cose che potremmo condividere in maniera più naturale”.
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