L’ALTRO FESTIVAL


Magari Godard ama i filosofi, ma il sentimento non è ricambiato. Lui cita con ammirazione Simone Weil e Hannah Arendt, Bergson e Jean Paul Sartre. Loro lo accusano di mettere il cartellino col prezzo ai regali e replicano domandandosi se i puffi siano animali o persone. Questa sì, una questione filosofica…
Enrico Ghezzi, con la complicità della Network e del Comune di Lipari, ha organizzato il festival più ghezziano che si possa immaginare. Un festival-anacoluto o, se preferite, un festival blob, dove cervelli come Emanuele Severino e Pier Aldo Rovatti, Peter Sloterdijk e Giorgio Agamben erano chiamati a pensare il cinema. E invece loro hanno dimostrato di detestarlo. O almeno di considerarlo un bel giocattolo senza pensiero. Colpa di un pregiudizio antico verso l’estetica, da aesthesis, perché la percezione inganna e la vista, tra i sensi, è il più ingannevole e inafferrabile? O colpa del “teorema Babe” (inteso come maialino coraggioso) di Maurizio Ferraris. Che teorizza, strappando l’applauso autocompiaciuto alla platea di studenti e dottorandi: “Barry Lyndon è bellezza cento e filosofia zero, Ricomincio da capo all’opposto, perché la sceneggiatura l’avrebbe potuta scrivere Leibniz, anche se il film è mediocre”.
Si sa, Kant di poesia capiva ben poco. Così i professori riuniti a Lipari, giudicano Godard “troppo citazionista”, Béla Tarr “insopportabile”, Edward Yang “indigesto”. E guardano con commiserazione i critici che invece parlano di “capolavoro”.
Incomprensione solo in parte reciproca. Se Otar Ioseliani, Premio Stromboli 2001, compone l’elogio della vodka montando a loop la scena di una bevuta e facendola durare quaranta minuti e poi ironizza sulla filosofia madre di tutti i totalitarismi, Béla Tarr (Le armonie di Werckmeister) fa mettere in scena la nascita della rivoluzione copernicana da un branco di ubriaconi e innesca una sommossa violenta a causa di una balena imbalsamata che fa pensare al Leviatano in un film pieno di umanità e di grazia “sporcata”, il brasiliano Julio Bressane interviene in portoghese per dimostrare l’intraducibilità – o incomunicabilità? – da una lingua (una koiné, un circolo di amici…) all’altra, ma intanto prepara un film sulla pazzia di Nietzsche, che a Torino parlò col cavallo di pietra. E Nietzsche ricompare in 2001: Odissea nello spazio, da rivedere nel piccolo teatro greco di Lipari come un barocco trattato sull’origine della tecnologia. E della guerra. L’umano troppo umano, allora, è la partoriente di Pelesjan. La cineasta egiziana Saafa Fathy che lascia a Derrida la parola sull’ospitalità e l’essere altrove parlandogli da profuga a profugo. Il mondo visto attraverso l’obiettivo fotografico del bambino-filosofo di Yi Yi di Edward Yang. Sono le impressioni – pensiero debole, magari, ma non debolezza di pensiero – che ci portiamo via da un festival nato nel nome del Vento del cinema. Però i filosofi, usciti dalla caverna di Platone, pare non vogliano rientrarci.

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05 Giugno 2001

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