Jennifer Kent: “Alla violenza rispondiamo con la compassione”

In concorso The Nightingale, atteso film dell'australiana Jennifer Kent, unica donna in gara. "Vorrei avere le mie sorelle con me, il percorso verso la parità è fondamentale"


VENEZIA – Un isolato ma spudorato attacco – con l’uso dell’epiteto “puttana”, il preferito dai sessisti ad ogni latitudine – ha accompagnato la prima proiezione di The Nightingale, atteso film dell’australiana Jennifer Kent, unica donna in concorso a Venezia 75 (e al responsabile, un ragazzo ventenne, individuato dalla Biennale, è stato giustamente ritirato l’accredito). La violenza contro le donne, verbale e fisica, c’entra eccome perché il film di Jennifer Kent è un revenge movie sanguinoso ambientato nella Tasmania del 1825, storia della riscossa di una donna irlandese vittima di indicibili soprusi, che insegue il suo persecutore rivendicando il proprio diritto ad essere padrona del suo corpo e delle sue azioni. Tema eterno e anche molto attuale che Kent ha trattato con un gusto in alcuni momenti anche splatter (“perché siamo anestetizzati alla violenza e invece volevo scioccare, ma non in modo gratuito”) e allo stesso tempo con fine sensibilità. Oggi, a chi l’ha insultata, risponde con queste parole: “E’ fondamentale reagire con compassione e amore all’ignoranza e di questo il mio film parla chiaramente. Sono orgogliosa di questo lavoro che ribadisce come quei valori siano fondamentali anche se nel presente quasi considerati dei difetti”.

L’autrice dell’horror Babadook, nella sua opera seconda torna all’inizio del XIX secolo per raccontare il personaggio di Clare (Aisling Franciosi), galeotta irlandese portata nel Nuovo Mondo: ormai ha scontato la sua pena, ma l’ufficiale che l’ha in custodia (Sam Claflin) non le consegna il lasciapassare e la tiene in suo potere, abusando di lei e arrivando a uccidere suo marito e la figlia neonata. Quando gli eventi precipitano, la giovane donna affronta i pericoli della foresta assieme a Billy, una guida aborigena (Baykali Ganambarr) alla ricerca degli uomini che le hanno strappato tutto, ma nel lungo viaggio si sviluppa tra lei e la guida un rapporto speciale, fatto di solidarietà e comprensione reciproca che è la cosa più interessante del film.

“Le questioni della violenza, del razzismo e del sessismo sono oggi più rilevanti che mai – afferma la regista di Brisbane – però ho preferito parlarne con un film di ambientazione storica, anche perché amo costruire nuovi mondi”. Per farlo si è avvalsa di un consulente aborigeno e Baykali Ganambarr conferma la grande fedeltà della narrazione alla cultura del suo popolo, “è un film fondamentale per noi, tra l’altro il primo parlato nella nostra lingua, in Tasmania sono ansiosi di vederlo”.

E cosa dice la regista dell’assenza di altre autrici dal concorso veneziano? “Vorrei avere le mie sorelle con me, è molto importante il percorso verso la parità di genere. Se il cinema rispecchia solo metà del mondo, non fa suo lavoro”.  E ancora: “Ci sono altre persone che non trovano il giusto spazio: gli aborigeni, i neri, coloro che non sentono di appartenere a un gender. Io sono molto fortunata perché vengo da un paese dove la parità è un dato di fatto sia in famiglia, sia nel sistema sociale e nelle strategie di finanziamento dei film, ecco perché dall’Australia e dalla Nuova Zelanda arrivano tante registe”. Ha notato una resistenza a permettere alle donne di raccontare la violenza e il sangue? “Sì, esiste anche questo. si pensa che dobbiamo fare film per donne oppure che se un film parla di donne, allora sia rivolto solo alle donne, ma non è vero”.

Ci sono delle similitudini tra la cultura irlandese e quella aborigena? “Sì, e nel film lo mostro: il rispetto per la natura, l’amore per il canto e la danza. E poi stiamo parlando di due popoli colonizzati, siamo più simili di ciò che pensiamo”.

Aisling Franciosi, di madre irlandese e padre milanese, si emoziona parlando del suo personaggio, cosi complesso e raro. “MI sono preparata al film facendo molte ricerche sulla violenza sessuale e la sindrome post traumatica. Una donna vive con lo stupro che ha subìto per tutta la vita, non può non sentire la tristezza e la rabbia nel suo corpo”. Attrice e anche cantante, è stata lei a suggerire la canzone in gaelico che canta in una delle scene più intense, quando incontra di nuovo il suo stupratore. Mentre Sam Claflin, che ha l’ingrato ruolo di un cattivo quasi demoniaco, esprime la sua indignazione: “Non avevo idea di quanti brutali soprusi avessero commesso i colonizzatori e un po’ me ne vergogno”

 

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06 Settembre 2018

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