IVANO DE MATTEO


Per la sua opera prima, Ultimo stadio, il più che trentenne Ivano De Matteo ha riunito più di 40 attori scelti dopo faticosi e interminabili provini per i tanti personaggi raccontati. Tra gli interpreti, accanto allo stesso regista, troviamo Franco Nero, Valerio Mastandrea, Lia Tanzi e Rolando Ravello. E altri attori meno conosciuti, come Manrico Gammarota, che con De Matteo condividono un lungo tirocinio teatrale. “Ho più di 12 anni di teatro alle spalle dopo aver frequentato i corsi di Perla Peragallo e Leo De Berardinis. Ho una mia sala occupata a Trastevere, una mia compagnia, “Il cantiere”, insieme a una giovane autrice triestina, Valentina Furlan, che ha curato tra l’altro il soggetto e la sceneggiatura di Ultimo stadio“.
De Matteo: romano, o meglio trasteverino doc, non si tiene alla conferenza stampa, è un torrente in piena incontenibile. Ricorda il premio Libero Bizzarri e quello del Torino Film Festival per il corto Prigionieri di una fede, dedicato al mondo degli ultras. E proprio il calcio torna in questo debutto alla regia di De Matteo che intreccia drammi di famiglie metropolitane fatti di infelicità, solitudini, rabbia, sullo sfondo di una finale di coppa campioni.
Girato in sei settimane (“Ho finito le riprese con un giorno d’anticipo e ho anche avanzato mille metri di pellicola”) Ultimo stadio, che uscirà a inizio maggio, è costato 1 milione di euro, di cui 725mila sono il contributo governativo come articolo 8.

E’ una società cinica, cattiva e nevrotica quella vediamo fin dalle prime battute del film.
E’ un film duro che racconta vicende autentiche, frammenti di un quotidiano che ci circonda. Le mie storie iniziano e non finiscono, sono storie aperte: quella della sedicenne di buona famiglia Alice, di Gabriele l’omosessuale, di Pietro figlio del direttore di un giornale. Vorrei che ciascun spettatore le chiudesse, dando la propria interpretazione. Forse le storie si concluderanno male, anzi peggio del previsto.

Perché questa visione pessimista della società italiana?
Io sono estremista, perciò ho voluto che tutti i personaggi fossero sgradevoli, in tutte le sfumature. Non mi interessa il buonismo o l’happy end, se fosse così farei la fiction alla “Maresciallo Rocca”. Dove sta l’uomo buono? Non c’è. Forse i buoni li possiamo cercare tra i cattivi.

Perché hai scelto come figura centrale un arbitro?
Le quattro storie ruotano intorno quella dell’arbitro Toscani che fugge all’improvviso, lasciando casacca e fischietto nello spogliatoio a pochi minuti dall’inizio della finale di Coppa dei campioni. Perché se l’arbitro se ne va all’insaputa di tutti, si blocca tutto un meccanismo: l’entusiasmo delle tifoserie, la trasmissione televisiva, il movimento di soldi, le interminabili discussioni del dopo partita. Tutto il sistema fa cilecca e restano là fuori da quell’enorme catino colmo di gente le storie dei cattivi, dei brutti, dei perdenti, degli inutili.

Il paesaggio è tipicamente romano?
Avrei voluto lavorare in un posto dove mi sento protetto come nel mio quartiere, Trastevere. Ma non potevo circoscrivere il mio film in poche vie. Roma è riconoscibile, ma vorrei che fosse una qualsiasi grande città italiana.

E la ricca colonna musicale?
Per ogni storia narrata ho scelto un particolare tipo di musica: valzer, tango, jazz, rap. Ho voluto le musiche originali di Cor Veleno e Marcello Allulli. Del resto i miei spettacoli teatrali sono sempre un mix di testo e musica.

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