‘Io Capitano’ dietro le quinte: i costumi di Stefano Ciammitti

“Ho allestito la sartoria in un ex nightclub della Medina di Dakar, sul mare, vicino ai pescatori, alle pecore e ai negozietti di lamiera illuminati al neon che si vedono all’inizio del film”. L’intervista.


Quando e come è entrato in campo nel progetto come costumista? Cosa andava (o andavate) a cercare in particolare? 

Abbiamo fatto un primo sopralluogo parecchi mesi prima di iniziare a girare, ed è stato utilissimo per immergerci in quel mondo. Inizialmente i protagonisti sarebbero dovuti partire da un villaggio nell’entroterra, ma dopo giorni di perlustrazioni Matteo (Garrone, ndr) ha deciso che avremmo invece girato nella Medina di Dakar. È stata un’idea meravigliosa, perché in poco tempo era già diventato il nostro posto del cuore. Un luogo pieno di vita e ispirazione. Io ho allestito la sartoria in un ex nightclub della Medina, sul mare, vicino ai pescatori, alle pecore e ai negozietti di lamiera illuminati al neon che si vedono all’inizio del film.

La Sartoria del set, allestita da Stefano Ciammitti nella Medina di Dakar

Alcuni strumenti molto utili a noi costumisti, come ad esempio le relle appendiabiti, che loro non usano mai, sono andato a farle saldare da un fabbro. Ho fatto quindi anche cose che generalmente non faccio, ed è stato moto interessante. Grazie alle preziosissime indicazioni dei miei aiutanti locali ho scoperto una città incredibile e posti che non avrei mai potuto vedere senza di loro: per me loro sono il cuore pulsante del film, mi piacerebbe tantissimo tornare a trovarli, e perché no, magari rivedere assieme il film a Dakar.

da sinistra a destra: la truccatrice Dalia Colli, l’assistente ai Costumi Fiordiligi Focardi e il costumista Stefano Ciammitti sul set di ‘Io Capitano’, nel deserto

 

Lo scenografo del film, Dimitri Capuani, ci spiegava che il suo obiettivo era che il suo lavoro risultasse “invisibile”, nel senso che quel che inseguivate era prima di tutto la maggior autenticità possibile nel racconto. Cosa ha significato dal suo lato, dal punto di vista dei costumi? 

L’idea di partenza di tutti i reparti era esattamente quella di rimanere il più possibile invisibili. Come giustamente ha sottolineato anche Dimitri, questo non vuole dire lasciare le cose così come sono, ma l’esatto opposto. Nel nostro caso tutte le persone che compaiono nel film, anche i passanti, sono vestiti da noi, perché per rendere tutto perfettamente naturale bisogna passare dalla finzione, bisogna ricostruire la realtà. Mentre rubavo dalla strada magliette dilaniate, cappelli tradizionali, tessuti, mi dicevo: alla fine di tutto chi vedrà il film dovrà pensare che non c’è nessuno dietro.

É vero che il suo lavoro ha a che fare con i tessuti, i colori, i materiali, ma sempre partendo dai volti a cui si accostano, a cui appartengono. Come, quando e quanto ha studiato quelli di Seydou, sua madre, Moustapha e gli altri? 

Questo dei volti è l’insegnamento più importante che ho ereditato dal mio maestro Piero Tosi. Anche Matteo conosceva bene Piero, si ammiravano molto, e Matteo gli chiedeva spesso consigli. Tra me e Matteo a Dakar è nata quasi una ‘gara’ a chi trovava per strada le persone con le magliette più belle, quindi quelle più lavorate dal tempo, più espressive, logore, sdrucite, macchiate, strisciate, magliette da calcio sfigurate, divenute ormai quasi irriconoscibili. Convincere le persone a disfarsene alla fine non era mai così difficile, ed è esattamente quello che faceva Piero nei primi film del periodo neorealista di Luchino Visconti. Soprattutto in Bellissima, nel 1952. L’Italia all’inizio degli anni cinquanta aveva qualcosa di poetico che oggi a Dakar si può ancora trovare.

Io ho iniziato la mia carriera come disegnatore. Quando si disegna una figura umana, il punto di partenza e quello di arrivo rimane il volto. Io personalmente inizio a disegnare sempre dagli occhi. Matteo, non solo per i protagonisti, ma anche per scegliere solo una figurazione, ne vede prima a centinaia. Sempre alla ricerca del volto.

I miei preferiti sono i ‘malviventi’, partendo dai loro corpi e dalle loro facce, inquietanti, distorte, meravigliose: qualsiasi cosa aggiungi è come se esplodesse. A volte facevano veramente paura, ovviamente nella vita erano dolci e simpatici, in almeno due casi abbiamo usato i nostri capogruppo delle figurazioni in Marocco, che si sono prestati anche con una certa dose di divertimento.

Matteo mi spronava a mettere occhiali, accessori e cappelli di ogni genere, che di solito sono le cose per cui noi costumisti dobbiamo invece combattere (perché creano ombre, riflessi ecc..), e io ero felicissimo di poterlo accontentare, perché per me sono le cose che fanno veramente la differenza nella creazione un personaggio.

I colori africani sono incredibili, non solo nei tessuti, nei villaggi, negli oggetti, nella natura: in tutto. E poi c’è la dimensione pittorica di Garrone. Parlami delle scene come la festa iniziale nel villaggio, di quella del ciarlatàn, di come hai raffigurato i sogni di Seydou, a partire da quello della donna volante, puro Chagall… A un certo punto c’è anche un angelo, o qualcosa che gli assomiglia molto: come è nata quella figura, come l’hai creata? Quale ricerca e quali commistioni culturali o mistiche ci sono dietro?

Per preparare la scena della Danza del Sabar, la loro danza tradizionale, sono stato per giorni nelle loro case, nei loro cortili gremiti di gente: talmente tanta che non ho mai capito esattamente chi abitasse dove, ma era un continuo entrare e uscire di tutto il vicinato, sorrisi, energia vitale, gente che prepara il pranzo in enormi pentoloni e te lo offre, mentre altri entravano nelle stanze per poi uscire con un vestito ancor più colorato dell’altro. Io fotografavo tutto, è stata chiaramente la preparazione più bella e divertente della mia vita.

Poi la scena della festa, che a un certo punto ha attirato tutto il quartiere diventando una vera e propria festa, culminata in una sorta di estasi, con due persone che hanno avuto attacchi epilettici (cosa che ricorda molto quello che è narrato negli studi di Ernesto De Martino nel sud Italia degli anni cinquanta), poi prontamente portate da un gruppo sulla spiaggia, dove uno stregone ha fatto un rituale per liberarli dal ‘maligno’. Ci hanno rassicurato del fatto che fosse una reazione piuttosto comune, dovuta sicuramente al fatto che la canzone che stavano suonando ormai da parecchie ore era considerata ‘demoniaca’.

Questa è stata la prima di una serie di avventure incredibili, che sono culminate nelle riprese in barca. Come si vede anche nel film, l’imbarcazione era chiaramente sovrappopolata e in mare aperto, e nonostante la ruggine non fosse reale ma magistralmente dipinta dai pittori di scena, resta il fatto che imbarcava acqua in continuazione, bagnando tutte le figurazioni, tutto il giorno, con il vento e il freddo: non era facile mantenere la calma, soprattutto quando il rischio di affondare non era poi così remoto.

Il costume dell’angelo invece è ispirato alle bellissime pitture sul corpo e ai costumi delle Tribù locali che ancora animano il continente. Per riuscire a fare le ali ho dovuto unire tanti materiali diversi e montare a mano le famose Cipraee, le conchiglie bianche africane, usate nei secoli in Africa non solo come ornamento ma anche come moneta di scambio. Inizialmente le visioni erano di più ma Matteo ha deciso giustamente di tenere solo quelle essenziali per non distrarre troppo dal viaggio dei due protagonisti. Gli angeli erano poco più di una ventina, ognuno con un copricapo diverso fatto di bacche, foglie, fiori, rami.

La scena più emozionante.

Quella più emozionante di tutte è proprio sulla barca, quando Seydou scopre che c’è gente anche in stiva che sta soffocando. È la scena che Matteo, secondo me in modo geniale, ha deciso in fase di montaggio di rallentare e dilatare, in un modo che stacca completamente con il resto del film, che invece ha un ritmo abbastanza incalzante e lineare. Sono solo corpi che convulsamente cadono uno sull’altro, un groviglio di corpi che a me fa pensare a una Strage degli innocenti. Una scena che mi commuove ogni volta che la rivedo, perché molti di loro, quasi tutti, avevano vissuto veramente quell’esperienza durante il loro viaggio verso l’Italia. Hanno accettato di riviverlo quasi in modo catartico, e spesso li trovavamo negli angoli a piangere. Questa scena secondo me, con il giusto grado di astrazione e di rispetto, restituisce tutta la sua potenza sullo schermo.

Il costumista Stefano Ciammitti sul set di ‘Io Capitano’

C’è qualcosa di particolarmente suo che le è rimasto dentro di questo ‘viaggio’ all’interno di un film così speciale?

A Dakar abbiamo capito che la realtà, come spesso succede in questi casi, è molto più potente di qualsiasi immaginazione. Il cimitero, ad esempio, era un posto incredibile, selvaggio, a picco sul mare e stipato di corvi inquietanti.

Io passavo le mie giornate negli affollatissimi mercati di Dakar, dei labirinti senza fine, pieni di vita e di sorprese inaspettate. La sensazione che avevo era quasi che le mie energie fossero senza freni, tutto il mio organismo era proteso in una sorta di sforzo quasi atletico, tanto che personalmente sono dimagrito di quindici chili, non solo per il cibo molto buono e salutare, sia in Senegal che in Marocco, ma anche perché non ero letteralmente mai fermo. La sensazione meravigliosa di adrenalina che si ha durante un progetto del genere ti fa riconsiderare la fortuna di poter fare un lavoro che difficilmente diventerà una prigione, e che non può che ampliare veramente i tuoi orizzonti. Torni a casa chiaramente cambiato, con una prospettiva sul tuo quotidiano completamente nuova.

 

 

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08 Marzo 2024

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