TRENTO – Mattia Tafel – classe 1999 – sceglie due caposaldi di portata monumentale, “amicizia” e “futuro”, per il suo film animato, Il picco della Ventura, in Concorso al 72mo Trento Film Festival.
Due personaggi, dalla linea stilizzata e omologa, distinti dal colore, uno rosa e uno grigio: Milo e Juno sono i protagonisti di un viaggio per raggiungere la vetta – simbolica, naturalmente – che dà il titolo al cortometraggio.
Tafel in pochi minuti riesce con essenzialità e altrettanta densità a concentrare la pregnanza dei temi che racconta, facendo misurare i personaggi con sfide e pericoli, per il raggiungimento della scoperta più grande: lo scopo non è conquistare il futuro, ma prendere consapevolezza del valore del presente condiviso.
Mattia, ha scelto due personaggi dalle sembianze asessuate e quasi un po’ aliene, che connota con colori differenti e nomi che si prestano a poter stare sul confine maschile-femminile. Nella creazione di Milo e Juno ha fatto una riflessione sul concetto di identità?
Questa connotazione è voluta perché la storia che volevo raccontare è una storia di affetto, un’avventura vissuta insieme, che crea una crescita per entrambi; non voleva essere una storia d’amore di coppia, però può anche essere letta così, se si volesse. L’accettazione va oltre l’identità del singolo, perché l’importanza non è concentrarsi su se stessi: voler conoscere il futuro è quasi un egoismo, dettato dall’insicurezza, soprattutto nel personaggio di Juno, invece la cosa che ha maggior valore è il rapporto con l’altro, chi sta vicino, e non la propria persona con le proprie paure che, se condivise, si possono superare, per aumentare addirittura il legame.
Perché il soggetto della montagna, della vetta, dell’ascesa, è stato fondamentale come contesto – e anche come metafora – per raccontare quello che desiderava?
La montagna è per eccellenza il luogo in cui si va a camminare, da solo con te stesso, o comunque con poche altre persone: con il fiatone che ti accompagna, è un momento per pensare alle proprie cose, anche ai propri problemi, è una possibilità di riflessione; per me, come credo per molti, la montagna è un luogo in cui si rallenta, si riflette, con la proiezione verso la vetta, che è una progressione lenta del percorso di vita.
Nel racconto inserisce un elemento tipico montano, la stella alpina, in formato gigante, e s’accenna potrebbe essere portatrice di un segreto: qual è il simbolo, l’intenzione e il valore di questo fiore?
Da piccolino, di stelle alpine, ne riuscivo a vedere qualcuna in montagna, adesso sono tantissimi anni che non riesco più: è la bellezza della Natura che patisce, più che altro per nostre cattive abitudini, a inquinare, a raccogliere i fiori. Rispetto al segreto, è una di quelle cose che ho lasciato apposta un po’ ambigue, così che chi guarda possa esplorare di più se stesso; per me significava la perdita di qualcosa di importante, era riconducibile anche alla mia infanzia, alle passeggiate con i miei genitori; quindi, è simbolo della bellezza e della fragilità.
Nel film c’è anche il concetto della ‘cura dell’altro’, espresso quando Milo accorda di partire per l’avventura, a patto che l’amico gli stia accanto. Quanto sente presente o assente nella sua generazione il concetto dell’accudimento di qualcuno a cui vogliamo bene?
Sia nella mia cerchia, ma anche guardando oltre, c’è questo sentimento di investire energie verso persone che non si conoscono per niente, che magari percorre migliaia di chilometri cercando ospitalità, o che arrivano da guerre lontane: mi sembra ci sia questa voglia che viene da dentro, senza interessi personali, dettata da convincimenti personali; la fragilità dell’altro permette di far percepire anche la propria, quindi la cura dell’altro è un atto altruistico che però un po’ riflette la propria condizione, l’incertezza, quindi mi piace questa solidarietà che si crea, spesso forse più nel mondo digitale che in azioni concrete, ma anche ‘solo’ questo può significare qualcosa, e sì, è qualcosa che rintraccio molto nella mia generazione.
L’estetica del film è molto specifica, ricorda quella di certi videogiochi meno recenti, caratterizzati da pixel palesi: qual è la tecnica che ha scelto, l’ effetto visivo che andava cercando, e c’è stata un’influenza dell’universo del videogame?
C’è stata nella mia infanzia la presenza dei videogiochi, che mi ha sicuramente lasciato qualcosa di nostalgico, ma anche un’estetica particolare; nella Pixel Art ho trovato una possibilità di sottrazione che lasciasse più spazio all’immaginazione, così che nella semplicità generale potessi dare una direzione estetica più precisa al minimalismo delle immagini; è un linguaggio quasi infantile, come il tratto dei personaggi, e lì si racchiude il senso della visione.
Juno a un certo punto chiede a Milo: ‘Non hai mai desiderato scoprire cosa ci riserva il domani?’. Per lei quanto è essenziale questa domanda a titolo personale, tanto da aver creato un film che ruotasse intorno a questo tema?
Ho 24 anni e questa cosa me la chiedo da quando ho finito il liceo, e si rinnova adesso, che ho terminato l’università (Laurea Specialistica in Design della Comunicazione, Politecnico di Milano): avere la possibilità di guardare il futuro e sapere cosa mi aspetti mi tranquillizzerebbe tantissimo, soprattutto il queste fasi in cui c’è la potenzialità di mille strade da percorrere; è una cosa ricorrente, che per me ritorna; soprattutto adesso, che mi aspetta il mondo del lavoro, sento questa tensione. Sono abbastanza riservato come persona e questa storia è stata anche un modo per esplorare e comunicare questa cosa. Da grande, più in generale vorrei fare il regista: pensare una storia e produrre un cortometraggio sono capace, ma per avere una squadra avrei bisogno di mezzi maggiori, e l’animazione è stato il primo linguaggio che ho incontrato, efficace per quello che posso realizzare adesso, ma comunque mi piace molto, seppur non escluda anche il live action, ma sicuramente l’animazione permette di raccontare cose assurde creando empatia e suscitando emozioni e sentimenti anche con pochi elementi.
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