Della lunga serie di film sui nazisti in Sudamerica, da I ragazzi venuti dal Brasile a My Father di Egidio Eronico al recente Operation Final su Eichmann, Il mio vicino Adolf di Leon Prudovsky, regista israeliano al suo secondo lungometraggio, riesce ancora a trovare una chiave sorprendente e inedita, tra tragedia storica e commedia privata, con un retrogusto di tardiva ma necessaria riconciliazione, sull’argomento. Lo fa innanzitutto grazie ai suoi maturi ed eccellenti interpreti, David Hayman e Udo Kier totalmente impegnati in un balletto tragicomico.
Il primo è Malek Polsky, un ebreo polacco che è l’unico sopravvissuto all’Olocausto della sua famiglia: nel prologo lo vediamo giocare a scacchi e coltivare rose nere concimandole con gusci d’uovo sminuzzati; il secondo è Herr Herzog, il suo nuovo vicino di casa, un tedesco scostante e barbuto, che indossa perennemente gli occhiali da sole, anche al buio. Polsky si convince ben presto che l’uomo sia Adolf Hitler in persona: siamo in Colombia, nel 1960, Adolf Eichmann è appena stato catturato in Argentina dal Mossad, insomma, l’argomento occupa le prime pagine dei quotidiani e tutti sanno che il Sudamerica è la meta di tanti gerarchi in incognito. Ma i servizi segreti israeliani, che Polsky contatta, non credono alla sua versione: Hitler è morto e oltretutto il vicino di casa che rivendica un pezzo del giardino, “rubandogli” il prezioso cespuglio di rose, non ha alcuna somiglianza fisica con il Führer. Sembra la classica bega tra proprietà confinanti. Eppure.
Eppure, il vicino è un pittore dilettante, ama i cani, ha frequenti scatti d’ira, riceve spesso visite notturne, non ultima quella di una severa e matronale avvocata (Olivia Silhavy) che gestisce un andirivieni di probabili ex camicie brune pronte al saluto nazista. I dettagli, ricavati da biografie e testi vari, combaciano con il ritratto di Hitler; le foto, scattate di nascosto con il teleobiettivo, confermano: non resta che infilarsi con qualche scusa nell’abitazione di Herr Herzog e smascherarlo.
“Mia nonna era una donna ansiosa, acida e senza pazienza. Non rideva quasi mai ed era sempre tesa, come se una tragedia fosse sempre dietro l’angolo. Come molti altri sopravvissuti all’Olocausto, non ha mai superato il trauma, non ha mai fatto pace con la perdita né ha mai smesso di odiare i tedeschi”, racconta il regista. Che ha provato a mettere in scena una “parabola chassidica” con l’umorismo ironico, tragico e non convenzionale che caratterizzava il mondo ebraico prima dell’Olocausto, “una parabola che percorre il sottile confine tra dolore e ridicolo, realismo e assurdo, delicatezza acuta e sfrontatezza grottesca. Il mio vicino Adolf esplora la natura dell’ostilità. Cosa succede se conosci il tuo peggior nemico e scorgi l’umanità che si cela dietro il tuo odio più puro?”, si domanda Leon Prudovsky.
Se il britannico David Hayman è un Polsky sospettoso e turbato dai suoi ricordi, Udo Kier presta i suoi occhi di ghiaccio al personaggio del nazista, non privo di un certo fascino. Così il film si rivela come un duetto in cui due anziani protagonisti si sfidano a scacchi e, allo stesso tempo, si fronteggiano in un duello della mente in cui le emozioni esitano a scaturire ma finiscono per esplodere come lava a lungo trattenuta.
La fotografia livida di Radek Ladczuk supera il senso di staticità, nonostante tutta la vicenda si svolga tra la austera e miserabile dimora di Polsky e quella più elegante e borghese di Herzog. Come nel classico hitchcockiano La finestra sul cortile, tutto sta nel guardare ed essere guardati. Ma qui lo spiare diventa metafora dell’elaborazione (impossibile) di una delle pagine più inaccettabili della Storia del Novecento.
Coproduzione tra Israele, Polonia e Argentina, Il mio vicino Adolf arriva in sala il 3 novembre con I Wonder Pictures e Biografilm, dopo aver debuttato all’ultimo festival di Locarno in Piazza Grande.
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