“Il Gattopardo è stato scritto dall’unico uomo che avrebbe potuto scriverlo (Tomasi di Lampedusa), diretto dall’unico uomo che avrebbe potuto dirigerlo (Luchino Visconti) e interpretato dall’unico uomo che avrebbe potuto interpretare il personaggio principale (Burt Lancaster)”. Una verità inconfutabile espressa splendidamente dal compianto critico Roger Ebert.
Il Gattopardo usciva nelle sale il 28 marzo 1963 ed è un’occasione imperdibile, questo anniversario, per recuperare un pezzo d’arte cinematografica a 6 decenni esatti di distanza, perché spesso le ricorrenze servono a questo: a togliere la polvere dai monumenti, specialmente quando i monumenti palpitano ancora di grandezza.
Sontuoso e bellissimo, soffuso di una serena malinconia e di un profondo amore per un passato ormai scomparso, Il Gattopardo di Luchino Visconti è una delle più grandi epopee storiche in costume.
Storia di una perdita: il libro postumo
Quando ho letto il libro la prima volta ero poco più che un ragazzo. E mi ha scosso nel profondo. L’ho riletto da adulto e l’ho trovato ancora capace di edificare un ponte verso un’altra epoca. Un ponte che una volta attraversato crolla dietro di noi. Questa ossessionante “storia di perdita”, questo affresco sfarzoso su un’età di passaggio è lo specchio dalle circostanze esistenziali del suo autore: Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Un aristocratico siciliano che ha scritto il suo unico romanzo intingendo la penna nel proprio sangue, basandola sulle vicende del suo bisnonno. E morendo senza un soldo, senza aver mai potuto contare sui proventi delle oltre 10 milioni di copie vendute. Il Gattopardo, come è noto, è stato pubblicato postumo, dopo essere stato rifiutato dalle due case editrici a cui Tomasi di Lampedusa l’aveva sottoposto in vita. Chi altri avrebbe potuto raccontarla con la sua consapevolezza e il suo cuore?
Lampedusa ha scritto in modo toccante di un tema essenziale: la potenza che cede il passo all’impotenza, la giovinezza che si piega inesorabilmente sotto il peso degli anni, la luce che si spegne, le rivoluzioni che vanno e vengono. Quasi fosse consapevole (come Don Fabrizio Corbera, principe immaginario di Salina e protagonista del romanzo) del proprio futuro di fantasma inquieto. È doloroso, visto lo sforzo straziante che ha fatto per portare alla luce la sua opera, ricordare che Lampedusa è andato nella tomba senza sapere che quest’opera non solo sarebbe stata subito riconosciuta come un grande risultato letterario, ma avrebbe anche dato origine a un’altra opera imponente.
Il Visconti delle meraviglie
Il libro finisce nella mani di Luchino Visconti che ne ha fa un capolavoro cinematografico in grado di resistere alle mareggiate del tempo (sulla genesi del libro si veda anche il documentario prodotto e distribuito nel 2019 da Luce Cinecittà La nascita del Gattopardo). Visconti, nobile a sua volta, è sorprendentemente fedele sia alla trama che ai significati di Lampedusa. Modella in forma filmica alcune scene d’azione fatte solo di parole e ne aggiunge di proprie, in particolare una battaglia per le strade per mostrare l’ambiguo eroe Tancredi in azione come garibaldino. Ambiguo perché, come perfettamente incarnato dall’attore Alain Delon, è un soave opportunista, superficiale, attento a se stesso e magnetico.
Ma più del bel Delon è Burt Lancaster a essere l’uomo giusto per il ruolo giusto: nonostante i tanti dubbi alla vigilia della sua scelta, alla fine è chiaro che Lancaster si rivela una scelta di casting ispirata. Attore che ha sempre portato una certa formalità nel suo lavoro, che si è fatto strada come indipendente prima che fosse di moda, interpreta il Principe come un uomo che ha un grande amore per uno stile di vita che intuisce essere al tramonto. È un patriarca naturale, un uomo nato per avere autorità. Eppure, quando lo incontriamo, è consapevole della sua età e della sua mortalità. Un ruolo che fa il paio con quello di Alfredo Berlinghieri nel Novecento immortale di Bernardo Bertolucci.
Alla fine si resta ammutoliti dalla maestosità della “messa in schermo” di Visconti, dai suoi ocra che ritraggono l’infinito del paesaggio siciliano, dai simboli resi reali da strati di polvere, dai dolci architettonici costati il sudore invisibile e le lacrime di molti cuochi, distrutti con un colpo di forchetta snob.
E l’ultima pennellata di colore a un quadro già di per sé stupendo: la colonna sonora di Nino Rota, gonfia e struggente, come solo il suo genio sapeva allestire.
Perché le cose rimangano uguali, tutto deve cambiare
Il film si conclude con una sequenza nella sala da ballo della durata di 45 minuti. Il critico Dave Kehr l’ha definita “una delle più commoventi meditazioni sulla mortalità individuale nella storia del cinema”. O forse semplicemente è una delle scene impresse su pellicola più magistrali di tutti i tempi. Un impareggiabile momento di cinema che immortala gli ultimi rantoli di un’epoca gloriosa.
La storia è andata avanti, il mondo è cambiato in tutti i sensi possibili in questi ultimi 60 anni, ma il bellissimo film di Visconti è ancora fulgido, come il gattopardo, nella sua ultima ora di splendore. Tanto che sembra una profezia la frase più famosa del libro e del film: “Perché le cose rimangano uguali, tutto deve cambiare”.
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