Oggi la fama della Pikkio Jewels non ha bisogno di presentazioni nel mondo dei gioielli per il cinema e il teatro. Ma la sua personale passione, divenuta scelta di dedicarsi all’aspetto creativo fino ad affermarsi tra le firme al top del settore a livello internazionale, merita di essere raccontata.
All’inizio l’azienda di mio padre forniva accessori di moda: lui non era un produttore, ma quel che si definisce un ‘grossista’, un rivenditore: acquistava gioielli da produttori italiani, in genere a Milano, dei quali aveva la distribuzione per il centro sud. Per quanto riguarda me, vengo da studi piuttosto distanti dal mondo del cinema: laureato in economia e commercio, sono arrivato in azienda solo nel 2003, dopo mia sorella, predestinato a seguire la sola parte amministrativa, cosa che tuttora continuo a fare. Ma da subito ho cercato un ruolo in cui esprimere sia la mia passione per la matematica e i conti che quella che ho avuto da sempre per gli aspetti artistici, ma a causa delle mie scelte universitarie avevo messo da parte.
Come entra il cinema nella vostra azienda?
Quasi per caso, per via di una persona che parlò di noi al costumista Alberto Spiazzi, che al tempo curava gli abiti del film Callas Forever e cercava dei gioielli diversi da quelli canonici. Quando entrò da noi, ci fu un innamoramento reciproco tra lui e mio padre, che con i suoi modi molto diretti gli disse ‘se non ti stanno bene i gioielli che vedi, fatteli da solo!’… aprendo di fatto una possibilità del tutto inaspettata per entrambi: Alberto (Spiazzi, ndr) a quel punto entrò in laboratorio con mio padre, e con lui si costruì i gioielli che voleva. Da quel momento il suo passaparola aprì le nostre porte ad altri costumisti che erano interessati a fare la stessa cosa per i loro progetti. In più, già mio padre partiva da un archivio storico di materiali degli anni ’60 – ’70, che con Alberto integrarono, riproducendo oggetti appartenenti anche ad epoche diverse. Trovando al mio ingresso questa situazione, con una spiccata indole artistica oltre a una gran voglia di imparare, sono diventato io il riferimento per i costumisti che passavano da noi: da Gabriella Pescucci a Carlo Poggioli, fino a Massimo Cantini Parrini, Milena Canonero, Alessandro Lai, e tanti altri. Mi sono appassionato subito al mondo del cinema, che trovo molto migliore di quello della moda, soprattutto dal lato umano, perché costellato da persone illuminate, con una grandissima cultura e sensibilità e cura del ‘bello’: letteralmente ‘aggrappato’ a loro, ho imparato un mestiere grazie a queste persone, e ogni volta che entrano nel mio laboratorio sono a elemosinare di fare cose nuove, per noi il presupposto e lo stimolo a migliorare e avere l’occasione di sperimentare esperienze diverse. Il noleggio, infatti, è in sé qualcosa di ‘noioso’, perché il costumista arriva, sceglie il materiale, glielo preparo, la produzione lo paga e via. È un servizio, e di creativo c’è ben poco, se non il fatto di costruire il personaggio insieme al costumista e quindi magari proporre dei gioielli ad hoc, ma sempre nell’ambito del nostro repertorio. La cosa stimolante, la vera sfida, è costruire da zero un’immagine. Purtroppo in Italia non capita spesso, perché per questioni di tempo e anche di ‘finanze’ non ci sono grandissime opportunità.
Nel caso di Parthenope, invece, l’opportunità di ‘costruire da zero’ una nuova immagine è arrivata.
Esatto. Carlo (il costumista Carlo Poggioli, ndr) mi ha dato questa grandissima opportunità, oltre alla sua preziosa fiducia. Non è mai un lavoro facile, e non lo è stato nemmeno per Parthenope, perché a grandi professionisti corrispondono sempre grande impegno, grande passione e grande stress emotivo: ma l’obiettivo è stato raggiunto, al massimo della sua qualità. Per me poi Parthenope era una doppia sfida: la sfida con Carlo e quella con Paolo Sorrentino, che è ancora più esigente, ancora più ‘criptico’ per certi versi, e quindi riuscire ad arrivare a quel risultato è stato una grandissima avventura e una grandissima scuola per me, che rifarei altre dieci volte. Credo che in quel particolare contesto del film quel tipo di gioiello abbia decisamente dato forza al personaggio: non voglio dire che passerà alla storia, ma è un’immagine assolutamente iconica che resterà nella mente delle persone, e a me fa molto piacere aver contribuito a costruirla così come Paolo (Sorrentino, ndr) la voleva.
Come è stato coinvolto nel progetto? Quali le prime indicazioni che ha ricevuto da Poggioli per i gioielli dell’abito indossato da Celeste Dalla Porta?
Indipendentemente dal tipo di film in cui sono coinvolto, cerco sempre di farmi raccontare la visione del regista. Il mio tramite ovviamente è la voce del costumista, la persona con cui io mi interfaccio per la realizzazione dei gioielli e per la fornitura del materiale di repertorio. Nel caso specifico di Parthenope, abbiamo realizzato ad hoc un gioiello che avesse sì una netta riconoscibilità rispetto al Tesoro di San Gennaro, ma rivisitato in una chiave ‘di moda’: oggi quasi tutti i registi amano avere un approccio più moderno, che parli ai giovani e a tutto un bacino di utenti che sono molto più attenti rispetto al passato. Di questo ho una chiara prova dal fatto che vengo spesso chiamato da persone che vanno a vedere i film e restano fino all’ultimo titolo di coda solo per scoprire il nome del fornitore dei gioielli, con l’intento di contattarlo per sapere se quell’oggetto indossato dalla tale attrice è o no in vendita, oppure se è possibile realizzarne un altro… In questo periodo ad esempio mi sta capitando molto spesso con i gioielli della serie Lidia Pöet: mi arrivavano di continuo email di mariti che volevano regalarne per Natale gli orecchini o le spille alle mogli… Ecco, a me piace anche ‘chiudere il cerchio’ così, contribuendo a realizzare questi piccoli sogni personali.
Il mio punto di partenza è sempre l’aspetto emotivo: capire qual è l’emozione che sta dietro a un’immagine. Tornando a Parthenope, Carlo che per fortuna è ancora uno degli storici maestri che amano disegnare e preparare bozzetti, me ne ha forniti diversi, con varie opzioni di vestizione dell’abito-gioiello. Con lui collaboriamo spesso, c’è un grande rapporto di fiducia, e da quando non ha più la sua jewel house si rivolge a me, perché sa che abbiamo un laboratorio collaudato da vari decenni, e anche perché, oltre che per il cinema, sa che lavoriamo molto con la moda. Noi infatti nasciamo come produttori di accessori e gioielli per il mercato fashion, lavoriamo da anni con importanti brand italiani e internazionali.
Operativamente, come avete scelto di procedere per realizzare un oggetto così impegnativo?
Tutto è nato dal bozzetto di Carlo e dalla prima ‘reference’, il Tesoro di San Gennaro, dalla quale però dovevamo prendere in qualche modo anche le distanze: il nostro lavoro infatti, è stato quello di ‘avvicinarci’ e allo stesso tempo ‘allontanarci’ da quell’immagine, affinché non fosse ‘troppo’ riconoscibile. Alla fine la costruzione dell’abito – perché anche se fatto di gioielli è comunque un vestito – è stata di Carlo, come il famoso ‘outfit’, il modo in cui è stato indossato, che lui ha letteralmente costruito addosso all’attrice. Noi abbiamo fornito i componenti: la mitra, la cintura, tutta una serie di collane e di croci extra, che sono serviti alle mani sapienti di Carlo per realizzare quell’immagine potente che si vede nel film. Abbiamo contribuito come sappiamo fare, lavorando di riproduzione, cercando di rendere quell’aspetto che sembrasse il più possibile ‘vero’, con un mix di metalli, e imitazioni di ori, perle, rubini, smeraldi, diamanti, topazi, ametiste, acquemarine, tormaline… Il nostro vantaggio rispetto alla gioielleria è che lavoriamo già con forme prestampate: quindi sia le pietre che i supporti metallici sono materiali semi-industriali, sempre provenienti dal nostro archivio. Non usiamo plastiche, né pietre povere, tipicamente partiamo da pietre di cristallo Swarovsky, che è lo standard dal quale non facciamo altro che salire in qualità… oppure pietre dure, o pietre di vetro tedesche: le lavoriamo per dargli quell’aspetto più vero, intervenendo sul colore, sulla brillantezza… Se devo essere meno brillanti le lavoriamo per dargli quella verità del tempo vissuto, perché se metti su un oggetto pietre nuove, brillanti e sfaccettate, appena prese dal pacco, l’impatto è totalmente diverso da quello che deve sembrare un gioiello antico centinaia di anni. Ovviamente dobbiamo rendere in maniera artificiosa gli effetti che il tempo crea naturalmente, intervenendo sia sulle pietre che sul metallo: sulle prime andando a smussare gli angoli e rendendole più irregolari, togliendogli quell’aspetto troppo geometrico e industriale. E interveniamo sulle metallerie con pinze o strumenti meccanici come spazzole o bulini, per deformarle, alterarle, per poi lavorare anche sul colore, intervenendo con prodotti sintetici come smalti trasparenti o brunitori, che provocano reazioni del metallo, per poi ripulirlo levigandolo, per dare quell’effetto chiaroscuro che dà profondità all’oggetto, proprio come disegnando un bozzetto si rendono i chiaroscuri con le matite. Tutto l’abito – gioiello è stato fatto con lo stesso approccio: la parte delle catene con le perle, fatte a mano, che garantiscono la diversità tra un modulo e l’altro… Abbiamo usato anche il tè per dare quell’aspetto ingiallito e meno bianco e brillante che dà il tempo alle perle.
Quante modifiche ha richiesto, dal vostro lato, la sua costruzione?
Davvero molte, i pezzi andavano e venivano di continuo, forse è stato uno dei pezzi che ha fatto più avanti e indietro nella storia del nostro laboratorio: ma questo è normale, mancando a noi l’impatto diretto di quel passaggio di mettere l’oggetto davanti alla telecamera. Io me ne accorgo quando mando le foto, in cui vedo già la differenza dell’oggetto che vedo dal vivo, lavorandolo. La foto tira fuori tutti i difetti che l’occhio non riesce a percepire, te li evidenzia tutti. Come immagino anche la telecamera, per la quale in alcune inquadrature il gioiello è il protagonista, e quel che hai fatto si vede tutto. Anche il peso e le tonalità dei colori sul colore dell’incarnato possono essere dosati solo una volta che l’oggetto è provato addosso, e poi quando viene ripreso. Con la fortuna di avere Carlo costumista del film, però, mi sono affidato totalmente alle sue indicazioni, essendo lui uno dei mostri sacri del mestiere: non ho mai avuto obiezioni al fatto che lui mi guidasse passo passo in tutta la realizzazione e le modifiche.
In una scala di complessità tra gli oggetti che avete mai realizzato, dove si posiziona l’abito-gioiello di Parthenope, mitra compresa?
Quel costume aveva varie criticità: oltre all’aspetto estetico c’era anche quello della portabilità, del peso massimo che l’attrice (Celeste Dalla Porta, ndr), decisamente minuta, non poteva certo portare addosso. In più una flessibilità e un’ergonomia sufficiente per consentire il movimento in scene piuttosto impegnative. Anche per realizzare la mitra, piena zeppa di pietre (oltre 4000 nell’originale del Tesoro di San Gennaro, ndr), abbiamo dovuto dosare l’aspetto di ricchezza con quello della pesantezza: abbiamo cercato di lavorare sullo svuotamento e sugli spessori sottili di tutti i supporti metallici, ragionando componente per componente per mantenere la leggerezza.
Quindi il vostro laboratorio è anche un archivio, che è un po’ una miniera
Noi amiamo lavorare coi nostri materiali, abbiamo un grande archivio con tutti i componenti, alcuni dei quali hanno anche cento anni di storia e non vengono più prodotti, e questo per noi è una grande risorsa: anche Carlo lo conosce benissimo, e sa che quel tipo di risultato non saremmo riusciti a ottenerlo se non avessimo avuto un tesoro che non è quello di San Gennaro, ma quello dei nostri materiali, dai quali partiamo. Questo archivio, nello specifico, viene continuamente reinterpretato, riattualizzato, contestualizzato sia da me che da mia sorella, rispetto al tipo di gioiello da realizzare: viene fatta una selezione dei materiali da impiegare che vengono assemblati, si fa un ‘composite’, così come lo si fa con un puzzle o con dei pezzi di abito o di tessuto che vengono cuciti fra di loro. Nel caso di Parthenope lo si è fatto con questi materiali, che poi vengono uniti insieme, assemblati, quindi saldati dai nostri collaboratori (saldatori), poi lucidati, dorati e infine cuciti su una base di velluto preventivamente costruita sulla base delle misure ricevute dell’attrice stessa. Perché quel gioiello è proprio come un abito, quindi studiato da Carlo anche nel modo in cui doveva girare, cadere, il punto esatto del corpo in cui dovevano cadere le croci per coprirlo o non coprirlo… Senza nemmeno avere l’attrice in prova, cosa che almeno i nostri colleghi delle sartorie hanno a disposizione. Noi invece no, quindi abbiamo lavorato alla cieca, con bozzetto alla mano e le preziose indicazioni di Carlo, che avendola in prova riusciva a calibrare i vari aggiustamenti che dovevamo apportare ai gioielli.
Lasciamo Parthenope e ci immergiamo nelle scene di altri celebri film, grazie ad alcuni dei suoi gioielli esposti nelle teche di Cinecittà si Mostra: parliamo dei magnifici colli in filigrana d’oro e perle de Il racconto dei racconti (2015) di Matteo Garrone: Massimo Cantini Parrini, disegnandoli, voleva sembrassero ‘di pizzo’.
Il ricordo che ho di quella bellissima esperienza è il tempo passato con Massimo (Cantini Parrini, ndr) in laboratorio, a costruire e comporre collo per collo: con i ragazzi lì con noi che saldavano, spostavamo foglia dopo foglia, per dare la forma finale al singolo pezzo, oltre alle perle bianche e color salmone che vi erano applicate. Tornando alle informazioni spesso insufficienti che ci vengono fornite per lavorare, in quel caso noi realizzammo i colli da alcuni cartamodelli, senza aver visto gli abiti… che solo in seguito scoprimmo che per essere indossati dovevano essere aperti sul dietro, mentre i colli erano aperti davanti: dunque tutti i giorni, prima di girare le scene in cui apparivano, le sarte li dovevano scucire e ricucire dal costume delle attrici. Anche in quel caso, come in quello del vestito di Parthenope, abbiamo dovuto riadattarne alcuni, perché una volta messi in prova e posizionati sugli abiti c’era quello che andava accorciato, quello che andava allungato, quello in cui andava rivista la forma… E anche qui abbiamo dovuto porre molta attenzione al peso e all’’innocuità’ dei colli, sia nei confronti delle persone che degli abiti, perché in alcuni punti potevano facilmente risultare taglienti. Senza penalizzare l’aspetto di estrema ricchezza e di leggerezza che Massimo voleva salvaguardare: lui voleva che l’effetto, il volume e la tridimensionalità fossero esattamente quelli di un pizzo dell’epoca.
Le decorazioni floreali per Ofelia (2018) di Claire McCarthy, anche quelle disegnate da Massimo Cantini Parrini
Quelle decorazioni le realizzammo già in precedenza, per la storia della pulce ne Il racconto dei racconti… L’indicazione di Massimo quella volta era che i fiori fossero mobili, che i petali si muovessero, con un aspetto leggero, come fossero fiori veri, ariosi, naturali. Anche lì, avendone messo più di uno, abbiamo dovuto porre molta attenzione sul peso, dato che oltre che sull’abito le decorazioni erano applicate sulla testa.
Le due corone a tema marino con conchiglie e coralli per Misericordia (2023) di Emma Dante, realizzate dalla costumista Vanessa Sannino.
Quello fu un progetto gestito quasi tutto a distanza: con la costumista lavoravo per la prima volta e già questa per me è sempre una sfida, prima di conquistare l’empatia reciproca. La criticità era data dal fatto che la tiara doveva entrare in acqua, acqua che non si sapeva ancora se sarebbe stata dolce o salata, che ovviamente per i gioielli è dannosa e corrosiva. Doveva avere un’immagine che riportasse a quella di una ninfa, una principessa… e io più che un gioielliere sembravo uno chef che impiattava crostacei e frutti di mare: mandavo le foto a Vanessa (Sannino, ndr) e lei mi indicava ‘un po’ meno cozze, più stelle marine, meno granchi’… Fu molto divertente, e alla fine comunque fui molto soddisfatto del risultato: abbiamo realizzato davvero un bell’oggetto, molto particolare rispetto agli altri.
La corona dell’opera teatrale Riccardo III con Alessandro Gassmann, disegnata da Mariano Tufano e ispirata a quella indossata da Charlize Theron in Biancaneve e il Cacciatore (2012) di Tim Burton
Mariano (Tufano, ndr) ci seguì molto da vicino in quel progetto: oltre ad avere le misure della testa di Alessandro, la corona doveva garantire gli stessi aspetti di portabilità e leggerezza di tutti gli oggetti che realizziamo. In più, per Mariano doveva sembrare la corona di un re decadente, dannato, e a me piacque molto l’idea di quelle punte e di quell’aspetto, estremamente severo.
Tutte le informazioni su biglietti, orari e visite guidate a Cinecittà si Mostra sono disponibili sul sito di Cinecittà
Gli abiti del film di Sorrentino firmati dal celebre costumista si possono ammirare nelle teche degli Studi di via Tuscolana: dal vestito-gioiello di Celeste Dalla Porta, al completo in lino irlandese di Gary Oldman, fino al jersey dorato di Luisa Ranieri. L'intervista