La creatura del dottor Frankenstein avrebbe oggi un po’ più di 200 anni ed era nata dalla fantasia di una ragazza men che ventenne, Mary Shelley, figlia di una delle prime teoriche del movimento femminista e sposa del poeta Percy Bysshe Shelley.
La creatura del dottor Frankenstin (attenti alle differenze sennò il geniale scienziato si altera) compie invece 50 anni il 15 dicembre; da allora ha quasi superato l’originale quanto a popolarità ed è oggettivamente molto più divertente. Si dice l’abbia inventata Mel Brooks, regista di Frankenstein Junior, svelandola al pubblico in una gelida sera newyorchese; ma la verità è che deve tutto alla cocciutaggine del protagonista del film, Gene Wilder.”Ero nel pieno delle riprese di Mezzogiorno e mezzo di fuoco da qualche parte nell’Antelope Valley – ha ammesso il regista – e stavo bevendo un caffè con Gene e lui se ne esce dicendo ‘ho questa idea da un po’, che si potrebbe fare un nuovo Frankenstein’. Io ho replicato ‘Un altro proprio no! Abbiamo già avuto il figlio, il cugino, il cognato. Ti giuro, non ci serve di andare ancora avanti’. La sua idea comunque era molto semplice: cosa succederebbe se il il pronipote del celebre dottore non volesse avere niente a che fare con il suo avo? In realtà il giovane dottore si vergogna dei suoi avi e ha storpiato in nome in Frankenstin per evitare ogni connessione. Ci penso e gli dico: ‘Potrebbe essere divertente’”.
Finite le riprese la faccenda andò avanti. “Un po’ per volta – continua Mel Brooks -, ogni sera, Gene e io ci trovavamo al bel Air Hotel. Ordinavamo una teiera fumante di Earl Gray con una bella dose di panna e una razione di cubetti di zucchero di canna. Per accompagnare il tutto avevamo una scatola di quei deliziosi biscotti inglesi. Così, passo dopo passo, con molta cautela, ci siamo fatti largo attraverso un percorso oscuro e tortuoso fino alla sceneggiatura finale in cui il buon senso e la cautela vengono gettati dalla finestra e si fa largo la follia più insensata”.
Wilder la raccontava un po’ diversamente, ricordando che l’idea originale era in effetti sua ma che l’aveva condivisa, già prima, con due amici come Marty Feldman e Peter Boyle. Ammetteva però che la struttura finale era frutto dell’intesa col regista anche se in alcuni passi salienti, come il numero di tip-tap tra lui e la Creatura, si era dovuto imporre e solo alla fine Brooks aveva ceduto ai suoi argomenti e inserito “Puttin’ on the Ritz” come numero musicale nel sottofinale. Appartiene invece alla cocciutaggine del regista la scelta del rigoroso Bianco&Nero con marcati contrasti di luce in stile espressionista, il recupero di diversi elementi della scenografia originale del Frankenstein diretto nel 1931 da James Whale, specialmente tutti gli alambicchi del laboratorio creati da Kenneth Strickfaden. Sono di Wilder infine i suggerimenti cinefili che importano spunti da diversi altri film della saga, quello del 1939 (Il figlio di Frankenstein) e almeno un altro paio di titoli tra il 1935 e il 1942.
Wilder aveva già scritto delle sceneggiature in passato, che, per sua stessa ammissione, non erano un granché. Ma dopo che il suo agente Mike Medavoy gli suggerì di fare un film con due suoi nuovi clienti, che erano anche amici (Peter Boyle e Marty Feldman), in pochi giorni aveva già pronte quattro pagine del copione. Fu Medavoy poi a suggerire a Wilder di chiedere a Mel Brooks di occuparsi della regia.
Convintosi a dirigere il film, Brooks chiese un budget di almeno 2,3 milioni di dollari per la sua realizzazione alla Columbia che propose un budget massimo di solo 1,75 milioni. Brooks invece, determinato a rifare un vero film in stile anni ’30, si rivolse alla 20th Century Fox la quale accettò di finanziare l’opera con un budget maggiore facendo firmare un contratto di esclusiva a Wilder e Brooks per un periodo di cinque anni.
La materia era abbastanza collaudata da far breccia su una nuova generazione di spettatori che avevano già sentito parlare di Frankenstein e della Creatura ma, probabilmente, non avevano mai visto i vecchi capolavori se non per qualche spezzone alla tv. Erano oltre 30 i film ispirati al romanzo tra corti medi e lunghi a partire dal primo Frankenstein diretto da James Searle Dawley nel 1910: era tempo di rinverdire la gloria del Mostro, ma si trattava di trovare un nuovo registro in sintonia col pubblico giovane. E per questo Mel Brooks era il regista ideale.
Per fare questo salto nella modernità senza perdere il sapore del vecchio cinema, bisognava sbarazzarsi della corazza mitica che avvolgeva il personaggio fin dalla creazione di Mary Shelley che vedeva nel Dottore una sorta di Prometeo incatenato e nella Creatura il suo doppio libero dalle convenzioni della società razionalista. Quello che funzionava negli anni ’30 non poteva adattarsi al gusto degli anni ’70 quando l’horror movie aveva preso altre strade e raccontava i fantasmi segreti di una generazione che aveva a che fare col senso di colpa per la guerra in Vietnam. In compenso l’abitudine del pubblico a vedere in tv i vecchi film facendone una sorta di rito collettivo su cui sghignazzare, poteva sdoganare i vecchi mostri. Ed Wood era di là da venire, ma si apriva una nuova possibilità.
Oggi si può dire che Frankenstein Junior è quel tipo raro di capolavoro che genera ad ogni nuova uscita una felice follia collettiva, capace di riunire una vera e propria setta di maniaci che ripetono a memoria le battute memorabili, che si travestono come l’Igor di Marty Feldman (per la sua gobba fu usata una di quelle imbottiture da falsa gravidanza, ma fu Feldman a inventare la gag di spostarla da un lato all’altro nelle diverse scene), che gridano ad alta voce durante la proiezione “Rimetti a posto la candela!” oppure “Potrebbe esser peggio. E come? Potrebbe piovere…”
Ma qual è il segreto ammazzatempo di questo film? Intanto un contrasto voluto tra la raffinatezza formale delle citazioni – il fondo a nero, le luci di taglio, le didascalie in stile film muto – e una comicità demenziale che sta tra La piccola bottega degli orrori, Hellzapoppin’ e il ritmo incalzante alla Monty Python. Poi l’affiatamento degli attori che sembrano inciampare ad ogni passo in un’improvvisazione anche quando la struttura di montaggio rivela che tutto è calcolato al secondo. Infine il sottilissimo lavoro sulla naturale comicità di alcuni stilemi dell’horror movie come quando Igor viene incaricato di rubare un cervello per la creatura, prende la teca con scritto “AB Normal” e finisce a riportare indietro una materia diversa da quella indicata, ovvero il cervello di un tale “Hans Delbrück, scienziato e santo”. Pochi sanno però che il vero Delbrück è esistito, era un uomo politico il cui figlio Max fu un biochimico premio Nobel per la medicina nel 1969: da qui l’idea degli sceneggiatori.
Frankenstein Junior non vinse nessuno dei premi maggiori nonostante un paio di candidature all’Oscar, ma Brooks, in occasione del 40mo anniversario, lo definì “di gran lunga il mio miglior lavoro (sebbene non il più divertente) in qualità di sceneggiatore e regista”. E aveva ragione!
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