Più di mezz’ora di cinema puro, da John Carpenter a Nagisa Ōshima, quello che Luca Guadagnino ha scelto personalmente per raccontarsi alla platea della Festa del Cinema di Roma, nel quarto degli Incontri Ravvicinati moderati dal direttore artistico Antonio Monda.
Sei sequenze che attraversano un’ampio spaccato della Storia del Cinema mondiale, che hanno formato la persona, la sensibilità cinematografica, il gusto estetico e critico dell’autore di Chiamami col tuo nome, per cui Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini “è il mio film preferito di sempre, che continua a farmi amare il cinema nonostante sia sfiduciato dal ‘Current Cinema’, come lo chiamano a New York, quello ‘della settimana’. Rossellini è il più grande regista di sempre, seppur non si possa dire che io sia stato un amante del ‘cinema romano’. Questo è un film sulla necrofilia dell’amore, dà il senso della cristallizzazione del cinema: compete con il miglior Hitchcock, il miglior Lang, compositori della suspense del quadro. È un po’ triste vedere come l’eredità di Rossellini sia rimasta inascoltata, mentre spesso si torni al canone di Fellini, che era e rimane Fellini, cioè unico. Rossellini è un cineasta popolare ma complesso, che non cerca di sedurre lo spettatore, stimola il pensiero per connetterlo a qualcosa di più viscerale”.
Questo il commento ad una delle sei sequenze che hanno disegnato l’Incontro, così a quella di un altro autore italiano, Bernardo Bertolucci, cui, si sa, Guadagnino è molto affezionato, e di cui ha scelto La luna (1979): “Ho fatto 50 anni ad agosto, tempo di bilanci: ho scoperto Bertolucci in adolescenza e mi ha sedotto per la sua capacità di affabulazione; da ragazzino avevo l’ambizione di essere come lui, non come regista, ma per parlare come lui. Poi, Bernardo ha una capacità di interpretare il reale con il filtro della messa in scena. Questo è un film maledetto, invisibile: quando un regista prende rischi così pazzeschi va solo ammirato. Ricordo di aver letto una critica britannica contro, ma interessante per come era argomentata, e questo mi fa pensare a quanto si sia perso il piacere di leggere certe critiche che possono prendersi il tempo di ‘10.000 battute’ e non esaurirsi in 300, come succede adesso. Quando ho fatto Chiamami col tuo nome, nella scena intorno al momento in cui Elio e Oliver fanno per la prima volta l’amore, non riuscivo a spiegarmi con Armie Hammer sullo sguardo che volevo desse alla macchina da presa, poi m’è venuto in mente il finale de Il tè nel deserto, allora ho preso il cellulare e gli ho mostrato 5″ dello sguardo di Debra Winger e così… lo sguardo di Bertolucci nel mio cinema torna e ritorna”.
Dal cinema italiano a quello mondiale, in un viaggio intorno al globo, e oltre, con l’alieno di Starman (1984) di John Carpenter. “Questo è il primo film che mi ha reso consapevole di Jeff Bridges, e questo è un film che trovo straordinario, come Carpenter, che ha prodotto un canone straordinario. Quando vidi il film rimasi sconvolto dall’alieno che impara a diventare umano, mi ha catturato l’attore meraviglioso: ho sempre messo nei miei primi film ‘special thanks to Jeff Bridges’, di cui sono così follemente innamorato, che forse vorrei non incontrare mai. È un film smisurato”.
Invece, Prénom Carmen (1983) di Godard: “Quando uscì, ed era vietato ai minori di 18 anni e non potevo entrare al cinema, impazzivo, volevo vederlo, era già un regista mitologico: ero a Palermo, riuscii a entrare di nascosto, e poi ne rimasi ossessionato, mi fece capire il ‘sistema-Godard’, come giochi sui motti di spirito connessi all’immagine. Il film è meravigliosamente sovversivo. Bernardo era ossessionato da Godard”.
Da un padre della Nouvelle Vague a The Fly (La mosca, 1986) di David Cronenberg: “E’ un film tra i miei preferiti di sempre: un’interpretazione straordinaria. Quando metti in scena qualcosa di umanistico, gli attori guidano la messa in scena, domina la loro capacità di osare rispetto all’autodifesa prima di affidarsi alla macchina da presa. L’altra cosa impressionate del film è che Cronenberg non usi il genere per un’impressione epidermica ma profonda e lo faccia con un trucco esplicito, mostra la trasformazione nella sua assoluta terminalità. Mi piace tutto Cronenberg: io dovevo fare un film dal libro di Don De Lillo, Body Art, allora scrissi la sceneggiatura e per il personaggio della body artista avevo pensato a Isabelle Huppert, mentre per il regista scrissi la parte per Cronenberg, che accettò di fare se stesso. Poi il film non si fece, come spesso accade nel cinema”.
Dawn of the Dead (1978) di George Romero porta verso la conclusione dell’Incontro, prima del finale giapponese: “Amo Romero, anche lui un grande regista dell’economia: io ho fatto due remake ma credo di questo film non sia possibile, anche se – ahimè – è stato fatto. L’inesorabità degli zombi ha senso se sono lenti (nel movimento), e anche qui la lezione di Romero non è stata ascoltata. Ci aveva visto lungo. Lui ha sempre vissuto con grande disagio il capitalismo americano, questo film è una satira come una fotografia perfetta. Romero non è per niente Post-Moderno”.
E così Ecco l’impero dei sensi (1976) di Ōshima: “Il primo dei suoi film che ho visto, avevo 16 anni (anche questo era vietato ai minori): mi ha insegnato non esistere qualcosa che non puoi filmare, dipende sempre da come lo film. Ōshima ha sempre fatto film che erano dissezioni sul Giappone del dopoguerra: qui si concentra l’estremizzazione di una performance. L’idea: quello che vediamo, un tabù, ci sfida”.
Luca Guadagnino conclude sollecitato da una riflessione a cui lo stimola il direttore Monda, sul tema dell’essere attenti/costretti – per i registi – a tener sempre conto dell’inclusione delle diversità, seppur eticamente corretto: “C’è un discorso sul sistema industriale e uno su quello artistico: penso che delle linee guida siano benvenute come atto a scardinare delle calcificazioni, ma mi domando perché non sia stato qualcosa fatto prima dai registi, spontaneamente. Fare il cinema è spesso un’occasione per superare il proprio profondo senso di insicurezza: poi, piano piano pensi di essere un po’ meglio degli altri, qualcosa di un po’ pericoloso, perché perdi un po’ il contatto con la dimensione prosaica del vivere, mentre la realtà va guardata per essere raccontata, uscendo dal privilegio”.
E chiosa abbracciando tutte le immagini scelte per raccontarsi, dicendo: “Sono tutte sequenze di una classe di cineasti forse un po’ fuori moda – qualcuno, per qualcuno – ma che mi danno la Fede nella possibilità della messa in scena come qualcosa di radicale”.
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